La vera resistenza
di
Roberto Pertici24 Maggio 2009
Alla fine del 1958 Gianni Baget Bozzo si presentò a Luigi Gedda, ancora (per pochi mesi) presidente nazionale di Azione Cattolica. Comune a entrambi era un giudizio assai preoccupato sulla situazione della DC e sulla svolta a sinistra che il suo gruppo dirigente si apprestava a compiere: in quella complessa operazione politica, il giovane genovese vedeva la consacrazione definitiva del “pragmatismo a-cristiano” affermatosi nel partito con la segreteria Fanfani. A metà dell’anno successivo, Gedda (ormai estromesso dalla presidenza) accolse la sua proposta di finanziare un nuovo quindicinale che Baget Bozzo chiamò «L’Ordine civile»: si stampò a Roma dal giugno del 1959 a tutto il 1960. Parlandone molti anni dopo, il suo direttore ne avrebbe individuato i temi fondamentali nella riforma in senso presidenziale dello Stato (secondo le suggestioni golliste allora vive in lui) e nella critica della partitocrazia. Ma, a rileggerla oggi, essa appare assai interessante anche per altri aspetti: proprio perché culturalmente e politicamente all’opposizione rispetto al mainstream dominante, mostrava antenne molto sensibili nel registrare i mutamenti di cultura e di costume che si stavano profilando nella società italiana, soprattutto l’affiorare del progressismo cattolico e il ritorno in grande stile dell’antifascismo “ideologico”. E’ su questo ultimo aspetto che vorrei richiamare qui l’attenzione, perché «L’Ordine civile» ebbe subito chiaro che su questo tema si stava giocando una partita dalle conseguenze incalcolabili nella politica e nella cultura italiana.
In realtà l’esigenza di superare la clivage fascismo/antifascismo come dato permanente della lotta politica in Italia e di passare al «post-fascismo» era stato un tema tipico della ricerca di Baget fin dai tempi di «Terza generazione», la rivista diretta Bartolo Ciccardini fra il 1953 e il 1954, nel cui entourage egli aveva svolto un ruolo rilevante: essa aveva posto chiaramente l’esigenza di una revisione dell’antifascismo tradizionale, perché incapace di promuovere un superamento positivo del fascismo, e invitato i giovani a esprimere se stessi nella costruzione di una nuova società, dove un certo antifascismo di maniera non poteva che operare come ostacolo, come fattore immobilizzante e solo negativo. Questa esigenza era stata riconosciuta come uno degli accenti più felici della nuova pubblicazione da alcuni coetanei, che a Bologna avevano dato vita a un altro periodico (destinato però a una vita assai più lunga): alludo a Nicola Matteucci e a Federico Mancini, che si confrontarono criticamente con «Terza generazione» sul «Mulino» nel 1954. Ancora tre anni dopo, Matteucci ne avrebbe sviluppato alcuni temi, indicando come compito della cultura del «Mulino» il superamento di un orizzonte meramente «antifascista» e un atteggiamento nuovo rispetto ai problemi della società italiana, che chiamava, appunto, «post-fascismo» (anche allora avrebbe ricordato «gli amici di Terza generazione»). Alla fine degli anni Cinquanta si ebbe, invece, una ripresa in grande stile dell’«antifascismo ideologico» connessa alle polemiche sull’apertura a sinistra e sulle resistenze che ad essa facevano determinati ambienti economici, culturali ed ecclesiastici. Le vicende del 1960, dalla crisi del secondo governo Segni al governo Tambroni, ai tumulti di luglio, costituirono una svolta senza ritorno (almeno per molti decenni) in quella direzione. Le categorie con cui anche la più intelligente fra le riviste che lavorava per il centro-sinistra giudicò quei mesi è testimoniato da un Taccuino del «Mondo», in cui in termini drammatici si agitava il tema di un nuovo fascismo prossimo venturo: era il sintomo che anche in ambienti “liberali”, a lungo saldi in una posizione “antitotalitaria”, si era ormai affermata la “religione dell’antifascismo”. Scriveva Mario Pannunzio nel numero del 16 febbraio 1960:
Siamo o meno alla vigilia di un nuovo ‘22? Non si tratta di un problema accademico. […] Insomma il fascismo degli anni sessanta non può essere il fascismo degli anni venti: ma non per questo il fenomeno del ‘60 è qualcosa di profondamente diverso da quello del ‘20. È finito il fascismo delle squadre d'azione, della violenza combattentistica, del nazionalismo esasperato: è rimasto - e in qualche misura - lo spirito antidemocratico, la tendenza all'autoritarismo, la pressione degli interessi economici; e c'è, inoltre essenziale novità in una situazione dominata dalle forze cattoliche, la volontà di potenza di un corpo, come la gerarchia ecclesiastica, con i suoi organismi e i suoi laici, estraneo alla società organizzata a Stato, e proprio perché estraneo intrinsecamente sopraffattore. I caratteri formali del movimento che rovesciò il regime democratico quarant'anni fa sono mutati; il colpo di Stato è un obiettivo che oggi non ha più senso. Ma che l’attacco esterno del fascismo allo Stato sia divenuto l'interna degenerazione clerico-fascista dello Stato, nulla toglie all'essenziale, se non in questo: che ha reso più difficile riconoscere un pericolo che è identico. [...] C’è obiettivamente una coalizione clerico-fascisa nel paese .
Il mese successivo si svolgeva sull’«Ordine civile» un interessante confronto fra il neo-fascista veronese Primo Siena, direttore della rivista «Carattere» (su di lui molte notizie si trovano nel recente libro di Antonio Carioti su Gli orfani di Salò), e Gianni Baget Bozzo. I due interlocutori erano concordi nel criticare l’unità del fenomeno fascista e quindi l’assimilazione completa fra fascismo e nazismo: entrambi ritenevano quindi assolutamente improprio la categoria di “nazifascismo”, poi invece destinata a grande successo. Il loro disaccordo nasceva altrove: mentre a Siena, sembrava «necessario operare una scelta nel bagaglio del fenomeno fascista per discernere quanto esso conservava di tradizionalmente vivo e quanto di caduco in esso il vaglio storico ha rivelato», Baget esortava i giovani neo-fascisti a un superamento totale dell’eredità del fascismo: se il fascismo è ormai un fenomeno «storico» - affermava - «bisogna aver la forza non di rinnegare, ma di abbandonare il proprio passato: di abbandonarlo, nel senso in cui è detto ad Abramo “Esci dal tuo popolo”» e quindi di uscire dal ghetto, rientrando nel gioco politico e nel dibattito culturale.
Tale “abbandono” doveva produrre specularmente quello dell’antifascismo: esso rappresentava infatti «in concreto il medesimo sistema di idee del fascismo rovesciato», senza riuscire «a raggiungere alcun concetto politico nuovo, chiaro e distinto, ma soltanto pasticci ideologici, validi solo come schemi demagogici: “liberal socialismo”, “democrazia progressiva”, “Stato sociale”, sono formule senza concetti, espedienti verbali senza sostanza di dottrina». Baget sottolineava il «carattere solidamente conservatore» che ormai l’antifascismo del 1960 presentava: qui pensava, evidentemente, alla sua profonda avversione all’esperienza gollista e a ogni ipotesi di riforma costituzionale.
Sarebbe tornato sull’argomento qualche mese dopo, dopo i fatti di luglio, distinguendo fra la Resistenza e l’antifascismo, quali erano stati vissuti «nella coscienza degli innocenti e dei giusti» (lo stesso Baget vi aveva partecipato) e quello che erano ormai «nella politica dei potenti» (li chiamava i “santoni” della Resistenza). L’eredità positiva della Resistenza era stata importante: «il nazionalismo non è più un ideale, lo Stato nazionale non è più un mito, il “force passe droit” può essere sostenuto solo contro coscienza. (…) Il “sangue d’Europa” non è corso invano. La via è libera a dei grandi compiti ricostruttivi». Ma «la Resistenza e l’antifascismo hanno cessato di essere parole di significato universale dal momento in cui, in loro nome, la religione fu oppressa, l’autonomia nazionale e statale di mezza Europa conculcate e disperse, la libertà civile annullata. (…) Da quel momento coloro che avevano sentito nella Resistenza la lotta della verità e della civiltà contro un neopaganesimo diventato ormai solo dispotismo e barbarie, non potevano più in verità usare quelle parole, come espressione militante dei valori».
Baget Bozzo insisteva soprattutto sul valore “divisivo” che il richiamo resistenziale manteneva presso i “professionisti” dell’antifascismo: essi tendevano a perpetuare le divisioni della guerra civile, negando ogni «nobiltà del nemico (…) di colui che morì per fedeltà, che combatté per solidarietà, per onore: colui che combatté nonostante sapesse della sconfitta, che morì senza la speranza della vittoria». Questa originaria “partigianità”, quest’applicazione continua della «categoria dell’amico e del nemico» impediva alla loro cultura - questo è l’addebito più grave che Baget faceva loro – di «fondare la “polis”, la “respublica”, lo “Stato”», cioè un’entità politica che fosse di tutti, e li spingeva invece a privilegiare piuttosto il partito come «formazione politica originaria»: la cultura dell’antifascismo non era capace di intendere la democrazia «in altro senso che non sia un senso militante, come strumento di lotta all’antidemocrazia». Per cui finiva per ignorare il cammino precedente degli ideali democratici, «la verità dei classici, la verità dei cristiani».
Insomma, Baget Bozzo negava che il mito resistenziale – quale veniva elaborato dai nuovi antifascisti – potesse diventare «il fondamento del nostro Stato». Così inteso, esso finiva per rimuovere l’esperienza fascista («Signori, il Fascismo non è mai esistito, eravamo tutti antifascisti e noi siamo quelli della Resistenza»), la sconfitta militare del 1943 e soprattutto – dirà in un discorso del 1961 - recidere la continuità della storia d’Italia: «L’Italia ha altre grandezze. Un Paese che ha 2600 anni di storia ha molti altri titoli di continuità nazionale e di valore e non può fondare la sua dignità politica su di un solo fatto recente che ha un valore storico limitato». Si avverte qui un Baget Bozzo “giobertiano”, che al di sotto della “forma-Stato”, guardava a un’Italia profonda, in cui si sono stratificate esperienze millenarie, fra cui primaria quella cristiana: «non possiamo rifiutare nulla della storia d’Italia», aveva dichiarato icasticamente Baldo Scassellati nella presentazione di «Terza generazione», mentre il mito della Resistenza come un vichiano “nuovo cominciamento” ne rifiutava gran parte, in quanto prologo in cielo del fascismo.Queste posizioni rimasero per allora isolate, ma – attraverso un percorso sotterraneo – avrebbero avuto poi effetti importanti. Discutendo con Primo Siena, Baget aveva indicato, come compito fondamentale della cultura italiana, quello di pervenire a «una valutazione oggettiva, non fascista né antifascista, del fascismo». L’esigenza da lui espressa trovava il pieno consenso di un altro collaboratore della rivista, Augusto Del Noce, che, sul «Mulino», aveva scritto cose analoghe fra il 1957 e il 1958: a suo giudizio, il problema della «valutazione oggettiva» del fascismo occupava un «posto assolutamente primo […] nell’ordine di importanza, sotto il profilo della cultura che interessa la decisione politica». Così, il 15 aprile 1960, egli avrebbe pubblicato sull’«Ordine civile» – proprio rifacendosi alla risposta dell’«amico Baget» a Primo Siena – Idee per l’interpretazione del fascismo, un saggio destinato a una singolare fortuna. La sua lettura sarebbe stata una folgorazione per un giovane storico “non incardinato” (come si direbbe oggi), che allora stava lavorando sulla storia degli ebrei italiani sotto il fascismo: aprì orizzonti nuovi proprio alle sue riflessioni sul fascismo. Renzo De Felice lo dichiarava esplicitamente nella recensione che gli dedicava nel novembre del 1960: segnalava alcune recenti «indagini particolari» in cui «il problema del fascismo era stato riproposto in termini nuovi e – finalmente – veramente critici, interpretativi, in una parola, storici. Termini nuovi dai quali non si potrà – crediamo - più prescindere». Riconosceva che «il la alla discussione era stato dato da un breve ma penetrante articolo di Augusto Del Noce» sull’«Ordine civile»:
Partendo da un’affermazione di Baget Bozzo sulla stessa rivista secondo la quale è ormai necessario passare ad una valutazione oggettiva, non fascista né antifascista, del fascismo, il Del Noce, dopo aver brevemente dimostrato l’inadeguatezza a tale fine delle correnti “internazionali” del fascismo, ha chiaramente e convincentemente affermato la necessità di muovere, per effettuare questa valutazione oggettiva, dall’indagine del “momento culturale” del fasci¬smo stesso.
Da qui nasceva la riflessione che avrebbe portato De Felice, nel 1965, al primo volume della sua grande biografia mussoliniana. Come si vede, le idee sono come messaggi in una bottiglia: talora giungono a destinazione.
In realtà l’esigenza di superare la clivage fascismo/antifascismo come dato permanente della lotta politica in Italia e di passare al «post-fascismo» era stato un tema tipico della ricerca di Baget fin dai tempi di «Terza generazione», la rivista diretta Bartolo Ciccardini fra il 1953 e il 1954, nel cui entourage egli aveva svolto un ruolo rilevante: essa aveva posto chiaramente l’esigenza di una revisione dell’antifascismo tradizionale, perché incapace di promuovere un superamento positivo del fascismo, e invitato i giovani a esprimere se stessi nella costruzione di una nuova società, dove un certo antifascismo di maniera non poteva che operare come ostacolo, come fattore immobilizzante e solo negativo. Questa esigenza era stata riconosciuta come uno degli accenti più felici della nuova pubblicazione da alcuni coetanei, che a Bologna avevano dato vita a un altro periodico (destinato però a una vita assai più lunga): alludo a Nicola Matteucci e a Federico Mancini, che si confrontarono criticamente con «Terza generazione» sul «Mulino» nel 1954. Ancora tre anni dopo, Matteucci ne avrebbe sviluppato alcuni temi, indicando come compito della cultura del «Mulino» il superamento di un orizzonte meramente «antifascista» e un atteggiamento nuovo rispetto ai problemi della società italiana, che chiamava, appunto, «post-fascismo» (anche allora avrebbe ricordato «gli amici di Terza generazione»). Alla fine degli anni Cinquanta si ebbe, invece, una ripresa in grande stile dell’«antifascismo ideologico» connessa alle polemiche sull’apertura a sinistra e sulle resistenze che ad essa facevano determinati ambienti economici, culturali ed ecclesiastici. Le vicende del 1960, dalla crisi del secondo governo Segni al governo Tambroni, ai tumulti di luglio, costituirono una svolta senza ritorno (almeno per molti decenni) in quella direzione. Le categorie con cui anche la più intelligente fra le riviste che lavorava per il centro-sinistra giudicò quei mesi è testimoniato da un Taccuino del «Mondo», in cui in termini drammatici si agitava il tema di un nuovo fascismo prossimo venturo: era il sintomo che anche in ambienti “liberali”, a lungo saldi in una posizione “antitotalitaria”, si era ormai affermata la “religione dell’antifascismo”. Scriveva Mario Pannunzio nel numero del 16 febbraio 1960:
Siamo o meno alla vigilia di un nuovo ‘22? Non si tratta di un problema accademico. […] Insomma il fascismo degli anni sessanta non può essere il fascismo degli anni venti: ma non per questo il fenomeno del ‘60 è qualcosa di profondamente diverso da quello del ‘20. È finito il fascismo delle squadre d'azione, della violenza combattentistica, del nazionalismo esasperato: è rimasto - e in qualche misura - lo spirito antidemocratico, la tendenza all'autoritarismo, la pressione degli interessi economici; e c'è, inoltre essenziale novità in una situazione dominata dalle forze cattoliche, la volontà di potenza di un corpo, come la gerarchia ecclesiastica, con i suoi organismi e i suoi laici, estraneo alla società organizzata a Stato, e proprio perché estraneo intrinsecamente sopraffattore. I caratteri formali del movimento che rovesciò il regime democratico quarant'anni fa sono mutati; il colpo di Stato è un obiettivo che oggi non ha più senso. Ma che l’attacco esterno del fascismo allo Stato sia divenuto l'interna degenerazione clerico-fascista dello Stato, nulla toglie all'essenziale, se non in questo: che ha reso più difficile riconoscere un pericolo che è identico. [...] C’è obiettivamente una coalizione clerico-fascisa nel paese .
Il mese successivo si svolgeva sull’«Ordine civile» un interessante confronto fra il neo-fascista veronese Primo Siena, direttore della rivista «Carattere» (su di lui molte notizie si trovano nel recente libro di Antonio Carioti su Gli orfani di Salò), e Gianni Baget Bozzo. I due interlocutori erano concordi nel criticare l’unità del fenomeno fascista e quindi l’assimilazione completa fra fascismo e nazismo: entrambi ritenevano quindi assolutamente improprio la categoria di “nazifascismo”, poi invece destinata a grande successo. Il loro disaccordo nasceva altrove: mentre a Siena, sembrava «necessario operare una scelta nel bagaglio del fenomeno fascista per discernere quanto esso conservava di tradizionalmente vivo e quanto di caduco in esso il vaglio storico ha rivelato», Baget esortava i giovani neo-fascisti a un superamento totale dell’eredità del fascismo: se il fascismo è ormai un fenomeno «storico» - affermava - «bisogna aver la forza non di rinnegare, ma di abbandonare il proprio passato: di abbandonarlo, nel senso in cui è detto ad Abramo “Esci dal tuo popolo”» e quindi di uscire dal ghetto, rientrando nel gioco politico e nel dibattito culturale.
Tale “abbandono” doveva produrre specularmente quello dell’antifascismo: esso rappresentava infatti «in concreto il medesimo sistema di idee del fascismo rovesciato», senza riuscire «a raggiungere alcun concetto politico nuovo, chiaro e distinto, ma soltanto pasticci ideologici, validi solo come schemi demagogici: “liberal socialismo”, “democrazia progressiva”, “Stato sociale”, sono formule senza concetti, espedienti verbali senza sostanza di dottrina». Baget sottolineava il «carattere solidamente conservatore» che ormai l’antifascismo del 1960 presentava: qui pensava, evidentemente, alla sua profonda avversione all’esperienza gollista e a ogni ipotesi di riforma costituzionale.
Sarebbe tornato sull’argomento qualche mese dopo, dopo i fatti di luglio, distinguendo fra la Resistenza e l’antifascismo, quali erano stati vissuti «nella coscienza degli innocenti e dei giusti» (lo stesso Baget vi aveva partecipato) e quello che erano ormai «nella politica dei potenti» (li chiamava i “santoni” della Resistenza). L’eredità positiva della Resistenza era stata importante: «il nazionalismo non è più un ideale, lo Stato nazionale non è più un mito, il “force passe droit” può essere sostenuto solo contro coscienza. (…) Il “sangue d’Europa” non è corso invano. La via è libera a dei grandi compiti ricostruttivi». Ma «la Resistenza e l’antifascismo hanno cessato di essere parole di significato universale dal momento in cui, in loro nome, la religione fu oppressa, l’autonomia nazionale e statale di mezza Europa conculcate e disperse, la libertà civile annullata. (…) Da quel momento coloro che avevano sentito nella Resistenza la lotta della verità e della civiltà contro un neopaganesimo diventato ormai solo dispotismo e barbarie, non potevano più in verità usare quelle parole, come espressione militante dei valori».
Baget Bozzo insisteva soprattutto sul valore “divisivo” che il richiamo resistenziale manteneva presso i “professionisti” dell’antifascismo: essi tendevano a perpetuare le divisioni della guerra civile, negando ogni «nobiltà del nemico (…) di colui che morì per fedeltà, che combatté per solidarietà, per onore: colui che combatté nonostante sapesse della sconfitta, che morì senza la speranza della vittoria». Questa originaria “partigianità”, quest’applicazione continua della «categoria dell’amico e del nemico» impediva alla loro cultura - questo è l’addebito più grave che Baget faceva loro – di «fondare la “polis”, la “respublica”, lo “Stato”», cioè un’entità politica che fosse di tutti, e li spingeva invece a privilegiare piuttosto il partito come «formazione politica originaria»: la cultura dell’antifascismo non era capace di intendere la democrazia «in altro senso che non sia un senso militante, come strumento di lotta all’antidemocrazia». Per cui finiva per ignorare il cammino precedente degli ideali democratici, «la verità dei classici, la verità dei cristiani».
Insomma, Baget Bozzo negava che il mito resistenziale – quale veniva elaborato dai nuovi antifascisti – potesse diventare «il fondamento del nostro Stato». Così inteso, esso finiva per rimuovere l’esperienza fascista («Signori, il Fascismo non è mai esistito, eravamo tutti antifascisti e noi siamo quelli della Resistenza»), la sconfitta militare del 1943 e soprattutto – dirà in un discorso del 1961 - recidere la continuità della storia d’Italia: «L’Italia ha altre grandezze. Un Paese che ha 2600 anni di storia ha molti altri titoli di continuità nazionale e di valore e non può fondare la sua dignità politica su di un solo fatto recente che ha un valore storico limitato». Si avverte qui un Baget Bozzo “giobertiano”, che al di sotto della “forma-Stato”, guardava a un’Italia profonda, in cui si sono stratificate esperienze millenarie, fra cui primaria quella cristiana: «non possiamo rifiutare nulla della storia d’Italia», aveva dichiarato icasticamente Baldo Scassellati nella presentazione di «Terza generazione», mentre il mito della Resistenza come un vichiano “nuovo cominciamento” ne rifiutava gran parte, in quanto prologo in cielo del fascismo.Queste posizioni rimasero per allora isolate, ma – attraverso un percorso sotterraneo – avrebbero avuto poi effetti importanti. Discutendo con Primo Siena, Baget aveva indicato, come compito fondamentale della cultura italiana, quello di pervenire a «una valutazione oggettiva, non fascista né antifascista, del fascismo». L’esigenza da lui espressa trovava il pieno consenso di un altro collaboratore della rivista, Augusto Del Noce, che, sul «Mulino», aveva scritto cose analoghe fra il 1957 e il 1958: a suo giudizio, il problema della «valutazione oggettiva» del fascismo occupava un «posto assolutamente primo […] nell’ordine di importanza, sotto il profilo della cultura che interessa la decisione politica». Così, il 15 aprile 1960, egli avrebbe pubblicato sull’«Ordine civile» – proprio rifacendosi alla risposta dell’«amico Baget» a Primo Siena – Idee per l’interpretazione del fascismo, un saggio destinato a una singolare fortuna. La sua lettura sarebbe stata una folgorazione per un giovane storico “non incardinato” (come si direbbe oggi), che allora stava lavorando sulla storia degli ebrei italiani sotto il fascismo: aprì orizzonti nuovi proprio alle sue riflessioni sul fascismo. Renzo De Felice lo dichiarava esplicitamente nella recensione che gli dedicava nel novembre del 1960: segnalava alcune recenti «indagini particolari» in cui «il problema del fascismo era stato riproposto in termini nuovi e – finalmente – veramente critici, interpretativi, in una parola, storici. Termini nuovi dai quali non si potrà – crediamo - più prescindere». Riconosceva che «il la alla discussione era stato dato da un breve ma penetrante articolo di Augusto Del Noce» sull’«Ordine civile»:
Partendo da un’affermazione di Baget Bozzo sulla stessa rivista secondo la quale è ormai necessario passare ad una valutazione oggettiva, non fascista né antifascista, del fascismo, il Del Noce, dopo aver brevemente dimostrato l’inadeguatezza a tale fine delle correnti “internazionali” del fascismo, ha chiaramente e convincentemente affermato la necessità di muovere, per effettuare questa valutazione oggettiva, dall’indagine del “momento culturale” del fasci¬smo stesso.
Da qui nasceva la riflessione che avrebbe portato De Felice, nel 1965, al primo volume della sua grande biografia mussoliniana. Come si vede, le idee sono come messaggi in una bottiglia: talora giungono a destinazione.
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