domenica 7 giugno 2009

Il discorso di Barack

Europa dimenticata

E’ un’ovvietà il fatto che i di­scorsi politici, come qualun­que altro discorso, assu­mano significati diversi per gli ascoltatori in ragio­ne delle differenti caratte­ristiche e identità degli ascoltatori stessi. Appa­rentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discor­so può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati di­versi col passar del tem­po, in ragione degli even­ti verificatisi dopo che quel discorso è stato pro­nunciato. Tutti nel mon­do (sia quelli che lo han­no approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi no­vità contenute nel discor­so pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio comple­tamente nuovo (una nuo­va chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicura­mente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scon­tro di civiltà». Ed è la stes­sa ragione per cui è pia­ciuto a tanti europei, non­ché a tutta quella parte dell’America che ha vota­to per Obama e vuole la­sciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le ten­sioni accumulate durante l’amministrazione Bush. Ma poiché i discorsi poli­tici assumono sempre si­gnificati diversi a secon­da dell’identità degli ascoltatori, è anche possi­bile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza del­l’America da parte di altri settori dell’universo isla­mico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizio­nalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideo­logica all’Occidente, e al­l’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetra­zione e di diffusione fra i musulmani. A quel mon­do, infatti, non può sfug­gire che, se Obama rap­presenta, come sicura­mente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui di­sponeva in precedenza, che avrà forse più difficol­tà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volon­tà e le proprie soluzioni.
È possibile dunque che nei prossimi mesi si mani­festi una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe ri­spondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di de­bolezza da sfruttare cini­camente. E, probabilmen­te, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non se­guiranno alle parole. Il di­scorso pronunciato da Obama, fra qualche tem­po, verrà riletto in un mo­do o in un altro a seconda di ciò che l’Amministra­zione americana sarà sta­ta in grado di fare. Oba­ma si è assunto, certo con­sapevolmente, col suo di­scorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mon­do islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella con­duzione di quelle che con­sidera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachi­stano). Deve, e questo è persino più difficile, rilan­ciare il processo di pace israeliano-palestinese.
Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi co­me mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloc­care dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a ca­po del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scom­messa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politi­ca pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è co­sì, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica ra­dicale dello status quo mediorientale, al­lora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Orien­te entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre.
C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragio­ne, che Obama è, in virtù delle sue espe­rienze e della sua formazione, un multi­culturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la catego­ria di Occidente e, quindi, anche il rappor­to con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto con­statare anche ieri in Francia durante le ce­lebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente fran­cese Sarkozy, centrato sui legami fra Fran­cia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rin­saldare, Obama ha risposto con un mes­saggio, come sempre retoricamente abi­le, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiag­gia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti.
Angelo Panebianco 07 giugno 2009

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