Europa dimenticata
E’ un’ovvietà il fatto che i discorsi politici, come qualunque altro discorso, assumano significati diversi per gli ascoltatori in ragione delle differenti caratteristiche e identità degli ascoltatori stessi. Apparentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discorso può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati diversi col passar del tempo, in ragione degli eventi verificatisi dopo che quel discorso è stato pronunciato. Tutti nel mondo (sia quelli che lo hanno approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi novità contenute nel discorso pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio completamente nuovo (una nuova chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicuramente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scontro di civiltà». Ed è la stessa ragione per cui è piaciuto a tanti europei, nonché a tutta quella parte dell’America che ha votato per Obama e vuole lasciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le tensioni accumulate durante l’amministrazione Bush. Ma poiché i discorsi politici assumono sempre significati diversi a seconda dell’identità degli ascoltatori, è anche possibile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza dell’America da parte di altri settori dell’universo islamico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizionalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideologica all’Occidente, e all’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetrazione e di diffusione fra i musulmani. A quel mondo, infatti, non può sfuggire che, se Obama rappresenta, come sicuramente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui disponeva in precedenza, che avrà forse più difficoltà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volontà e le proprie soluzioni.
È possibile dunque che nei prossimi mesi si manifesti una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe rispondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di debolezza da sfruttare cinicamente. E, probabilmente, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non seguiranno alle parole. Il discorso pronunciato da Obama, fra qualche tempo, verrà riletto in un modo o in un altro a seconda di ciò che l’Amministrazione americana sarà stata in grado di fare. Obama si è assunto, certo consapevolmente, col suo discorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mondo islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella conduzione di quelle che considera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachistano). Deve, e questo è persino più difficile, rilanciare il processo di pace israeliano-palestinese.
Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi come mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloccare dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a capo del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scommessa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politica pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è così, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica radicale dello status quo mediorientale, allora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Oriente entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre.
C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragione, che Obama è, in virtù delle sue esperienze e della sua formazione, un multiculturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la categoria di Occidente e, quindi, anche il rapporto con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto constatare anche ieri in Francia durante le celebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente francese Sarkozy, centrato sui legami fra Francia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rinsaldare, Obama ha risposto con un messaggio, come sempre retoricamente abile, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiaggia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti.
Angelo Panebianco 07 giugno 2009
domenica 7 giugno 2009
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