Libri usciti e già dimenticati
Quando il francese Poncet cercò di salvare l'Italia fascista dalla guerra
di
Beppe Benvenuto21 Giugno 2009
Hitler a Parigi
Diplomatico di lungo corso, Andrè Francois-Poncet, è intorno alla cinquantina quando sceglie di puntare sulla Penisola. Alle spalle ha una carriera politica e una competenza in questioni di germanistica che spiega la sua consistente permanenza a Berlino, dal 1931 al 1939, nella funzione di ambasciatore francese. Nella capitale del Reich segue l’irresistibile ascesa dei nazi e, pur in qualche intimità con Hitler, si rende conto che gli spazi di manovra per evitare un conflitto fra le potenze del vecchio continente sono ormai ridotti al lumicino.
Situazione opposta a Roma. Ufficialmente legata a doppio filo alla Germania, in realtà i vertici del Belpaese sono tutt’altro che certi della scelta di campo. Nel Duce, l’esperto diplomatico avverte un intimo combattimento a proposito della politica aggressiva del suo amico germanico. Poncet in particolare è colpito da Benito Mussolini nelle vesti di animatore di Monaco, argine estremo per mantenere l’Europa fuori dallo scontro armato. E’ questa la considerazione principale che lo spinge verso la sede italiana. Una richiesta, peraltro, prontamente esaudita da Parigi.
A guerra vinta, Poncet, torna sull’argomento e rianalizza i termini di quell’azzardo. Scrive quindi un succoso memoriale, ora riproposto con il titolo di “A palazzo Farnese” dalla casa editrice Le Lettere. L’idea forte è sempre quella di salvare in extremis la pace. Di primo acchito, le apparenze sembrano remare contro. Il regime ostenta freddezza. La stampa franca ostilità. Su gazzette e nelle piazze si agitano motivi “irredentistici”, che abbracciano richieste che vanno da Nizza alla Savoia, senza escludere neppure la Tunisia. Una cortina di ostilità che però non è a senso unico. Fra le alte sfere l’ambasciatore coglie, in più occasioni, sentimenti di segno differente.
Il libro racconta, ed è la sua parte migliore, il rapporto sempre più ravvicinato che Poncet riesce ad instaurare con Galeazzo Ciano. Si tratta di avvicinamento per tappe che, in prossimità dell’entrata in guerra, assomiglia a una segreta sintonia. Al navigato diplomatico il giovane gerarca non appare per nulla persona leggera, ma un politico che valuta con sincera e crescente apprensione la deriva filo tedesca del suocero-dittatore.
Poncet gioca di sponda e fornisce, in diverse occasioni, argomenti e supporti alle scelte temporeggiatrici di Ciano. Fra due “nemici” è circa un’intesa che, a tratti, potrebbe persino funzionare. L’ambasciatore francese vuole preservare l’Italia salda nella “non belligeranza”, che considera un primo passo nella direzione di una futura piena neutralità. L’invasione della Polonia rende la partita più sfumata e insieme più intensa. A far saltare banco e illusioni è la rottura da parte di Berlino di ogni indugio e l’inizio dell’attacco alla Francia. L’estremo saluto fra i due “dialoganti” è toccante e profetico. Così il monito del francese (momentaneamente sconfitto) al ministro (apparentemente sugli scudi): “Chi mangia carne di Hitler, resta avvelenato”.
http://www.loccidentale.it/articolo/quando+il+francese+poncet+cerc%C3%B2+di+salvare+l%27italia+fascista+dalla+guerra.0073675
domenica 21 giugno 2009
giovedì 18 giugno 2009
Poteri forti ?
IL TIMES E BERLUSCONI: MACCHE’ NOEMI
Postato il Mercoledì, 17 giugno @ 05:36:49 CDT di davide
DI PAOLO BARNARDpaolobarnard.infoChe il Times di Londra arrivi a scrivere un editoriale dove chiama il capo di governo di un Paese europeo “clown” e “buffone sciovinista”, e ciò solo per motivi di indignazione politica, lo lascio credere ai giornalisti, ma noi persone raziocinanti dobbiamo andare oltre. Un quotidiano della portata del Times, storico bastione del conservatorismo mondiale, voce internazionale dei Consigli di Amministrazione più potenti del pianeta, non si muove così violentemente per così poco (Noemi e festini), né è pensabile che abbiano scoperto solo oggi che Silvio Berlusconi alla guida del G8 è come un orango alla guida di un pullman. La scusante ufficiale per quell’editoriale di fuoco ai danni del Cavaliere è un insulto all'intelligenza. Rattrista, ma non stupisce, che in Italia nessuno dei paludati opinionisti pro o anti ci stia pensando.Il motivo è altro, non v’è dubbio, ed è assai più importante. Per farvi capire, cito la caduta dal potere del dittatore indonesiano Suharto nel 1998. Uno dei peggiori assassini di massa del XX secolo, nulla da invidiare a Hitler per numero di morti, era il cocco di mamma degli USA e della Gran Bretagna, media inclusi, che lo adoravano perché obbediva puntigliosamente a ogni diktat dell’establishment economico neoliberale d’Occidente e soddisfaceva ogni sua voracità di profitto, naturalmente a scapito dell’esistenza di milioni di disgraziati suoi connazionali. Nel 1997 Suharto fece l’errore delle sua vita: disobbedì al Tesoro americano (leggi Fondo Monetario Internazionale), una sola volta. L’allora Segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright, gli disse due parole secche. Fine di Suharto.Torno in Italia. Io sono convinto che lo stesso meccanismo sia in opera col nostro capo di governo. Deve aver fatto qualcosa di non gradito a chi oltrefrontiera aveva scommesso su di lui. Forse non gli sta obbedendo, da troppo tempo, e la corda si è spezzata, dunque l’attacco del Times. C’è un’ipotesi ragionata (e qui documentata) che vale la pena considerare e ve la propongo come riflessione. Naturalmente, seguendo lo schema Suharto, per l’establishment degli investitori internazionali non è altrettanto facile sbarazzarsi di Berlusconi. Un dittatore al tuo soldo lo sciacqui giù dal lavandino con relativa semplicità, basta chiudere i rubinetti che lo foraggiano. Per un leader democraticamente eletto le cose sono molto più complesse. Di mezzo c’è la sua gente (noi) che ahimè lo vota, e continua a votarlo. In quei casi la strategia è altra, e nel mondo anglosassone si chiama ‘character assassination’. Lo si dipinge sui maggiori media compiacenti come uno scandaloso incapace, si fanno cordate con alcuni media dell’opposizione interna, e si spera che in tal modo egli ne riceva un danno elettorale. Ma soprattutto gli si manda un messaggio, chissà mai che non si ravveda. Purtroppo per i manovratori, in questo caso hanno a che fare con gli italiani, e questo non l’avevano previsto. Ma continuiamo. Berlusconi entrò sulla scena politica come il tipico Liberista economico (Liberal Economics), colui cioè che invoca privatizzazioni a raffica, tagli fiscali ai ricchi, botte ai sindacati, flessibilità ultras per i lavoratori, riduzione del ruolo del governo, deregulation selvaggia, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Nelle Corporate Boards della City di Londra come a Bruxelles fu un giubilo unico. Era il 1994, Tangentopoli aveva appena eliminato quella fastidiosa classe politica così statalista, popolana, centralista, che non piaceva affatto alla classe dei neoliberisti rampanti di Londra e Washington. L’ipotesi che Tangentopoli sia stata teleguidata dall’esterno proprio per far strada alla Liberal Economics sul modello Thatcher/Reagan, non è cospirazionismo da Internet; ne discussi molto seriamente una sera con l’ex magistrato del pool Gherardo Colombo, che già ne sapeva qualcosa. Torniamo al ’94. Dopo pochi mesi fu chiaro che l’uomo di Arcore era tutto meno che un purista del mercato. Prima cosa, nella sua compagine di governo troneggiavano (ancora oggi) partiti simil-nazionalisti con legami molto radicati con le classi medio-basse, e avversi al concetto di leadership finanziaria sovranazionale incontrastata. Secondo, e ancor più cruciale, Berlusconi non dava segno di voler trasformare la ricca Italia in una trincea del capitalismo speculativo d’assalto, col minor numero di regole possibili, e paradiso degli investitori selvaggi. E mai lo ha fatto. L’Italia dei tre mandati del Cavaliere rimane ancora oggi un Paese tradizionalista nel Capitale, nelle banche, zeppo di zavorre statali, poco profittevole (questo fra parentesi ci ha salvato dal crack finanziario USA, ma agli investitori frega nulla di noi cittadini e dei nostri risparmi, nda). L’ipotesi è dunque che nella stanza dei bottoni i famelici Padroni del Vapore si siano spazientiti dopo anni di frustrazione dei loro piani per l'Italia, ergo l’attacco del Times. Vediamo i fatti.Siamo nel 2004, la prestigiosa e influente fondazione di destra neoliberale Stockholm Network di Londra pubblica un rapporto dove si legge “Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro (due teorici ultra Liberisti italiani, nda) sono delusi dalla differenza fra la retorica del Libero Mercato di Silvio Berlusconi e la sua reale capacità di fornire le tangibili riforme dell’ostinata burocrazia statale italiana” (1). Parole che trovano eco su decine di pubblicazioni della destra economica europea, sigle troppo oscure per questo contesto, ma tutte improntate a un senso di delusione verso le politiche economiche di Silvio. Passano due anni e il noto Economist (che non è quel bastione di progressismo che alcuni sciocchi qui pensano, nda) scrive: “L’Italia necessita urgentemente di riforme radicali, ma la coalizione di Berlusconi, che in teoria doveva essere dedita al Liberismo economico, ha fatto quasi nulla nei suoi 5 anni al governo” (2). Da notare che siamo nel 2006, a poco dall’avvento del governo Prodi, che riceverà in quegli anni il plauso di una ridda di fanatici del Libero Mercato, come il Fondo Monetario Internazionale, e il motivo c’è: Prodi alla Commissione Europea fu uno dei falchi del Liberismo economico, e nella stanza dei bottoni sapevano bene a quel punto che per ottenere le radicali riforme del lavoro e della finanza, in Italia era sui dalemiani che bisognava puntare, visti i tentennamenti di Silvio. Dopo pochi giorni esce il tedesco Der Spiegel: “L’amministrazione Berlusconi non ha mai mantenuto le promesse di taglio alle tasse, ulteriori privatizzazioni, e riforme strutturali necessarie per aumentare la competitività e privare le burocrazie del potere”. (3)Dopo pochissimo dall’elezione di Prodi, l’università di Harvard negli USA indice un seminario ultra neoliberal sull’economia italiana, presente anche Gianfranco Pasquino (ops!). Nella pubblicazione degli atti si leggono le parole di Alberto Alesina, professore ‘Nathaniel Ropes’ di politica economica nel prestigioso ateneo, che dopo aver ricordato i compiti futuri del bravo Prodi, dice: “L’Italia ha problemi gravissimi, ha bisogno di una iniezione di libero mercato con riforme economiche neoliberali… fra cui ridurre le tasse, tagli all’impiego pubblico e alle pensioni, rafforzare il settore dei servizi, e rendere più facili i licenziamenti”. (4) Cioè una pessima pagella, a suo dire, dei precedenti anni di Berlusconi, che anche l’Economist continuava a definire “assai scarsi di riforme delle insostenibili pensioni e dell’inflessibile (sic) mercato del lavoro”, da parte di un leader “mai veramente interessato alle riforme” (5). Il fuoco di sbarramento contro il ‘disobbediente’ Cavaliere è a questo punto massiccio. Le bordate arrivano anche dagli USA, e proprio guarda caso allo scadere del breve mandato Prodi. Il Wall Street Journal, voce dei falchi fra i falchi della finanza di destra, scrive a pochi giorni dalle elezioni del 2008 che “Berlusconi ci ha deluso in economia durante il suo ultimo mandato”. La vicenda Alitalia sta infuriando, cioè, sta infuriando gli investitori esteri assetati di affari sul cadavere della nostra linea aerea, mentre Berlusconi osa ipotizzare una cordata italiana per il salvataggio. Scrive il WSJ: “Berlusconi la scorsa settimana se n’è uscito contro la vendita di Alitalia, e questo è un segnale di mancanza di dedizione alle riforme”…. “Air France-KLM volevano garanzie che i sindacati e i politici non bloccassero le dolorose ristrutturazioni (per i lavoratori, nda)” E dopo due righe di plauso per il compiacente Veltroni, il quotidiano dà l’affondo: “Berlusconi aveva promesso tagli alle tasse, riforme del mercato del lavoro e liberalizzazioni, ma ha fallito in tutto… Egli si è rivelato più un nemico corporativo del Libero Mercato che un Liberista economico disposto a fare ciò che è necessario” (6)Alitalia non va giù agli investitori internazionali, e infatti non poteva mancare la regina dei loro quotidiani, il Financial Times, che tenta nel settembre del 2008 di mandare un richiamo all’insubordinato Cavaliere, suggerendogli di “… seguire l’esempio della Thatcher, e di sfidare i sindacati a scoprire le carte, così da far scoppiare l’ascesso (sic) di 30 anni di relazioni sindacali italiane irresponsabili e dannose” (7). E ancora: “Nonostante la sua immagine da imprenditore neoliberale, Berlusconi, dicono i critici, si trova a suo agio a fare il dirigista statale, con l’Alitalia in primis. La compagnia viene consegnata a un gruppo italiano e sottratta ai compratori stranieri” (8) E che il Financial Times avesse anch’egli dichiarato una guerra permanente a Berlusconi, anche se con metodi decisamente più ortodossi di quelli del Times, lo dimostra quanto ha scritto poche settimane fa, con toni sprezzanti: “Il suo primo governo nel 1994 non ha combinato nulla. I suoi cinque anni al potere dal 2001 al 2006 sono stati noti per aver fallito di nuovo nell’introdurre in Italia le riforme Liberiste così essenziali al Paese per essere competitivo nell’eurozona” (9).Ricordo a questo punto, per chi si fosse perso, che questo coro martellante che pronuncia sempre le parole magiche ‘riforme’ e ‘Liberismo’, altro non chiede se non la solita ricetta precedentemente descritta: privatizzazioni a raffica, tagli fiscali ai ricchi, botte ai sindacati, flessibilità ultras per i lavoratori, riduzione del ruolo del governo, deregulation selvaggia, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti (come peraltro leggibile nelle dichiarazioni riportate). La ricetta, cioè, che di noi persone e del nostro sangue versato se ne fotte, e che pretende solo una cosa: Unlimited Corporate Profits. Ne è un esempio brillante una delle raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale (leggi il Tesoro USA) fatte all’Italia allo scadere del 2008, altro rimbrotto al Cavaliere. E’ profferta con un linguaggio omeopatico, ma la si può leggere fra le righe: “Gli autori apprezzano in Italia gli sforzi per diminuire la disoccupazione (nota dell’autore: si preoccupano dei nostri senza lavoro?). Gli autori incoraggiano una seconda tornata di riforme del mercato del lavoro, per rafforzare il legame fra redditi e produttività (nda: vale a dire il valore e la qualità di vita della persona misurato unicamente in termini di contributo al profitto altrui). Gli stipendi devono adeguarsi alle differenze regionali (nda: gabbie salariali, su cui il FMI insiste da tempo), il lavoro a tempo indeterminato deve essere più flessibile (nda: già praticamente non più in offerta, qui si chiede che sostanzialmente scompaia), in tandem con una rete di ammortizzatori sociali maggiorati (nda: ci risiamo, socializzare i danni e privatizzare i profitti, cioè lo Stato paga per la disperazione dei lavoratori, le aziende licenziano e si ri-quotano in borsa).” (10) Questa abiezione sociale è ciò che realmente si cela dietro alla parola ‘riformismo’ (Rutelli, Prodi e D’Alema + seguaci prendano nota).Ma torniamo a Silvio Berlusconi. L’ultimo avvertimento gli giunge proprio dal Times il 7 maggio 2009, e in toni inequivocabili: “Nei suoi due maggiori mandati Berlusconi ha fallito nelle riforme così disperatamente urgenti in Italia… La UE e l’OECD continuamente rivelano l’eccessiva regolamentazione del business (in Italia, nda)… I lavoratori statali rimangono protetti… e le sue sbandierate riforme del sistema pensionistico sono state minimali… le tasse rimangono alte, e la resistenza del suo governo a tagliare la spesa pubblica è enorme” (11).v Tre settimane dopo, il possente quotidiano britannico perderà di colpo la sua celebrata compostezza dopo 224 anni, e dalle sue pagine partirà un attacco sgangherato e volgare a Silvio Berlusconi. Vi si leggerà che è “un clown”, “un buffone sciovinista”, un playboy patetico, la cui performance con le signorine e nei confronti degli italiani curiosi della vicenda Noemi è inaccettabile, per il bene della democrazia e del mondo intero. Certo, come no.E così, di nuovo, l’Italia antagonista di sinistra si è fatta infinocchiare degli isterismi dei D’Avanzo, Travaglio e Santoro, Grillo e compagnia, ha di nuovo eletto a suo paladino l’ennesimo baraccone di destra neoliberale (dopo Freedom House), e insiste nell’ignorare che ciò che gli sta corrompendo la vita non è il lodo Alfano, o Emilio Fede, né il burattino Berlusconi, ma sua maestà Il Burattinaio, leggi Liberal Economics and Corporate Power. Eppure Clinton ce l’aveva detto: “It’s the economy, stupid”.Nota a margine per l’Egregio direttore del Times:“Sir, non mi risulta che negli anni cha vanno dal 1997 al 2007 il Suo giornale abbia mai usato termini così aggressivi per Mr Tony Blair, PM, mentre si rendeva corresponsabile di crimini contro l’umanità (Turchia, Timor, Ex Yugoslavia, Iraq, Palestina, Afghanistan…) e di alto tradimento della patria mandando a morire truppe britanniche su basi mendaci, oltre ad aver ridotto le classi disagiate della Gran Bretagna a livelli di povertà “pre-Vittoriana” (The Guardian), tanto che l’organizzazione Medecins du Monde ha dovuto aprire delle tende-cliniche di strada in diverse periferie urbane britanniche. Gradirei una spiegazione, Sincerely Yours, Paolo Barnard"Paolo Barnard
DI PAOLO BARNARDpaolobarnard.infoChe il Times di Londra arrivi a scrivere un editoriale dove chiama il capo di governo di un Paese europeo “clown” e “buffone sciovinista”, e ciò solo per motivi di indignazione politica, lo lascio credere ai giornalisti, ma noi persone raziocinanti dobbiamo andare oltre. Un quotidiano della portata del Times, storico bastione del conservatorismo mondiale, voce internazionale dei Consigli di Amministrazione più potenti del pianeta, non si muove così violentemente per così poco (Noemi e festini), né è pensabile che abbiano scoperto solo oggi che Silvio Berlusconi alla guida del G8 è come un orango alla guida di un pullman. La scusante ufficiale per quell’editoriale di fuoco ai danni del Cavaliere è un insulto all'intelligenza. Rattrista, ma non stupisce, che in Italia nessuno dei paludati opinionisti pro o anti ci stia pensando.Il motivo è altro, non v’è dubbio, ed è assai più importante. Per farvi capire, cito la caduta dal potere del dittatore indonesiano Suharto nel 1998. Uno dei peggiori assassini di massa del XX secolo, nulla da invidiare a Hitler per numero di morti, era il cocco di mamma degli USA e della Gran Bretagna, media inclusi, che lo adoravano perché obbediva puntigliosamente a ogni diktat dell’establishment economico neoliberale d’Occidente e soddisfaceva ogni sua voracità di profitto, naturalmente a scapito dell’esistenza di milioni di disgraziati suoi connazionali. Nel 1997 Suharto fece l’errore delle sua vita: disobbedì al Tesoro americano (leggi Fondo Monetario Internazionale), una sola volta. L’allora Segretario di Stato di Clinton, Madeleine Albright, gli disse due parole secche. Fine di Suharto.Torno in Italia. Io sono convinto che lo stesso meccanismo sia in opera col nostro capo di governo. Deve aver fatto qualcosa di non gradito a chi oltrefrontiera aveva scommesso su di lui. Forse non gli sta obbedendo, da troppo tempo, e la corda si è spezzata, dunque l’attacco del Times. C’è un’ipotesi ragionata (e qui documentata) che vale la pena considerare e ve la propongo come riflessione. Naturalmente, seguendo lo schema Suharto, per l’establishment degli investitori internazionali non è altrettanto facile sbarazzarsi di Berlusconi. Un dittatore al tuo soldo lo sciacqui giù dal lavandino con relativa semplicità, basta chiudere i rubinetti che lo foraggiano. Per un leader democraticamente eletto le cose sono molto più complesse. Di mezzo c’è la sua gente (noi) che ahimè lo vota, e continua a votarlo. In quei casi la strategia è altra, e nel mondo anglosassone si chiama ‘character assassination’. Lo si dipinge sui maggiori media compiacenti come uno scandaloso incapace, si fanno cordate con alcuni media dell’opposizione interna, e si spera che in tal modo egli ne riceva un danno elettorale. Ma soprattutto gli si manda un messaggio, chissà mai che non si ravveda. Purtroppo per i manovratori, in questo caso hanno a che fare con gli italiani, e questo non l’avevano previsto. Ma continuiamo. Berlusconi entrò sulla scena politica come il tipico Liberista economico (Liberal Economics), colui cioè che invoca privatizzazioni a raffica, tagli fiscali ai ricchi, botte ai sindacati, flessibilità ultras per i lavoratori, riduzione del ruolo del governo, deregulation selvaggia, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Nelle Corporate Boards della City di Londra come a Bruxelles fu un giubilo unico. Era il 1994, Tangentopoli aveva appena eliminato quella fastidiosa classe politica così statalista, popolana, centralista, che non piaceva affatto alla classe dei neoliberisti rampanti di Londra e Washington. L’ipotesi che Tangentopoli sia stata teleguidata dall’esterno proprio per far strada alla Liberal Economics sul modello Thatcher/Reagan, non è cospirazionismo da Internet; ne discussi molto seriamente una sera con l’ex magistrato del pool Gherardo Colombo, che già ne sapeva qualcosa. Torniamo al ’94. Dopo pochi mesi fu chiaro che l’uomo di Arcore era tutto meno che un purista del mercato. Prima cosa, nella sua compagine di governo troneggiavano (ancora oggi) partiti simil-nazionalisti con legami molto radicati con le classi medio-basse, e avversi al concetto di leadership finanziaria sovranazionale incontrastata. Secondo, e ancor più cruciale, Berlusconi non dava segno di voler trasformare la ricca Italia in una trincea del capitalismo speculativo d’assalto, col minor numero di regole possibili, e paradiso degli investitori selvaggi. E mai lo ha fatto. L’Italia dei tre mandati del Cavaliere rimane ancora oggi un Paese tradizionalista nel Capitale, nelle banche, zeppo di zavorre statali, poco profittevole (questo fra parentesi ci ha salvato dal crack finanziario USA, ma agli investitori frega nulla di noi cittadini e dei nostri risparmi, nda). L’ipotesi è dunque che nella stanza dei bottoni i famelici Padroni del Vapore si siano spazientiti dopo anni di frustrazione dei loro piani per l'Italia, ergo l’attacco del Times. Vediamo i fatti.Siamo nel 2004, la prestigiosa e influente fondazione di destra neoliberale Stockholm Network di Londra pubblica un rapporto dove si legge “Alberto Mingardi e Carlo Stagnaro (due teorici ultra Liberisti italiani, nda) sono delusi dalla differenza fra la retorica del Libero Mercato di Silvio Berlusconi e la sua reale capacità di fornire le tangibili riforme dell’ostinata burocrazia statale italiana” (1). Parole che trovano eco su decine di pubblicazioni della destra economica europea, sigle troppo oscure per questo contesto, ma tutte improntate a un senso di delusione verso le politiche economiche di Silvio. Passano due anni e il noto Economist (che non è quel bastione di progressismo che alcuni sciocchi qui pensano, nda) scrive: “L’Italia necessita urgentemente di riforme radicali, ma la coalizione di Berlusconi, che in teoria doveva essere dedita al Liberismo economico, ha fatto quasi nulla nei suoi 5 anni al governo” (2). Da notare che siamo nel 2006, a poco dall’avvento del governo Prodi, che riceverà in quegli anni il plauso di una ridda di fanatici del Libero Mercato, come il Fondo Monetario Internazionale, e il motivo c’è: Prodi alla Commissione Europea fu uno dei falchi del Liberismo economico, e nella stanza dei bottoni sapevano bene a quel punto che per ottenere le radicali riforme del lavoro e della finanza, in Italia era sui dalemiani che bisognava puntare, visti i tentennamenti di Silvio. Dopo pochi giorni esce il tedesco Der Spiegel: “L’amministrazione Berlusconi non ha mai mantenuto le promesse di taglio alle tasse, ulteriori privatizzazioni, e riforme strutturali necessarie per aumentare la competitività e privare le burocrazie del potere”. (3)Dopo pochissimo dall’elezione di Prodi, l’università di Harvard negli USA indice un seminario ultra neoliberal sull’economia italiana, presente anche Gianfranco Pasquino (ops!). Nella pubblicazione degli atti si leggono le parole di Alberto Alesina, professore ‘Nathaniel Ropes’ di politica economica nel prestigioso ateneo, che dopo aver ricordato i compiti futuri del bravo Prodi, dice: “L’Italia ha problemi gravissimi, ha bisogno di una iniezione di libero mercato con riforme economiche neoliberali… fra cui ridurre le tasse, tagli all’impiego pubblico e alle pensioni, rafforzare il settore dei servizi, e rendere più facili i licenziamenti”. (4) Cioè una pessima pagella, a suo dire, dei precedenti anni di Berlusconi, che anche l’Economist continuava a definire “assai scarsi di riforme delle insostenibili pensioni e dell’inflessibile (sic) mercato del lavoro”, da parte di un leader “mai veramente interessato alle riforme” (5). Il fuoco di sbarramento contro il ‘disobbediente’ Cavaliere è a questo punto massiccio. Le bordate arrivano anche dagli USA, e proprio guarda caso allo scadere del breve mandato Prodi. Il Wall Street Journal, voce dei falchi fra i falchi della finanza di destra, scrive a pochi giorni dalle elezioni del 2008 che “Berlusconi ci ha deluso in economia durante il suo ultimo mandato”. La vicenda Alitalia sta infuriando, cioè, sta infuriando gli investitori esteri assetati di affari sul cadavere della nostra linea aerea, mentre Berlusconi osa ipotizzare una cordata italiana per il salvataggio. Scrive il WSJ: “Berlusconi la scorsa settimana se n’è uscito contro la vendita di Alitalia, e questo è un segnale di mancanza di dedizione alle riforme”…. “Air France-KLM volevano garanzie che i sindacati e i politici non bloccassero le dolorose ristrutturazioni (per i lavoratori, nda)” E dopo due righe di plauso per il compiacente Veltroni, il quotidiano dà l’affondo: “Berlusconi aveva promesso tagli alle tasse, riforme del mercato del lavoro e liberalizzazioni, ma ha fallito in tutto… Egli si è rivelato più un nemico corporativo del Libero Mercato che un Liberista economico disposto a fare ciò che è necessario” (6)Alitalia non va giù agli investitori internazionali, e infatti non poteva mancare la regina dei loro quotidiani, il Financial Times, che tenta nel settembre del 2008 di mandare un richiamo all’insubordinato Cavaliere, suggerendogli di “… seguire l’esempio della Thatcher, e di sfidare i sindacati a scoprire le carte, così da far scoppiare l’ascesso (sic) di 30 anni di relazioni sindacali italiane irresponsabili e dannose” (7). E ancora: “Nonostante la sua immagine da imprenditore neoliberale, Berlusconi, dicono i critici, si trova a suo agio a fare il dirigista statale, con l’Alitalia in primis. La compagnia viene consegnata a un gruppo italiano e sottratta ai compratori stranieri” (8) E che il Financial Times avesse anch’egli dichiarato una guerra permanente a Berlusconi, anche se con metodi decisamente più ortodossi di quelli del Times, lo dimostra quanto ha scritto poche settimane fa, con toni sprezzanti: “Il suo primo governo nel 1994 non ha combinato nulla. I suoi cinque anni al potere dal 2001 al 2006 sono stati noti per aver fallito di nuovo nell’introdurre in Italia le riforme Liberiste così essenziali al Paese per essere competitivo nell’eurozona” (9).Ricordo a questo punto, per chi si fosse perso, che questo coro martellante che pronuncia sempre le parole magiche ‘riforme’ e ‘Liberismo’, altro non chiede se non la solita ricetta precedentemente descritta: privatizzazioni a raffica, tagli fiscali ai ricchi, botte ai sindacati, flessibilità ultras per i lavoratori, riduzione del ruolo del governo, deregulation selvaggia, socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti (come peraltro leggibile nelle dichiarazioni riportate). La ricetta, cioè, che di noi persone e del nostro sangue versato se ne fotte, e che pretende solo una cosa: Unlimited Corporate Profits. Ne è un esempio brillante una delle raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale (leggi il Tesoro USA) fatte all’Italia allo scadere del 2008, altro rimbrotto al Cavaliere. E’ profferta con un linguaggio omeopatico, ma la si può leggere fra le righe: “Gli autori apprezzano in Italia gli sforzi per diminuire la disoccupazione (nota dell’autore: si preoccupano dei nostri senza lavoro?). Gli autori incoraggiano una seconda tornata di riforme del mercato del lavoro, per rafforzare il legame fra redditi e produttività (nda: vale a dire il valore e la qualità di vita della persona misurato unicamente in termini di contributo al profitto altrui). Gli stipendi devono adeguarsi alle differenze regionali (nda: gabbie salariali, su cui il FMI insiste da tempo), il lavoro a tempo indeterminato deve essere più flessibile (nda: già praticamente non più in offerta, qui si chiede che sostanzialmente scompaia), in tandem con una rete di ammortizzatori sociali maggiorati (nda: ci risiamo, socializzare i danni e privatizzare i profitti, cioè lo Stato paga per la disperazione dei lavoratori, le aziende licenziano e si ri-quotano in borsa).” (10) Questa abiezione sociale è ciò che realmente si cela dietro alla parola ‘riformismo’ (Rutelli, Prodi e D’Alema + seguaci prendano nota).Ma torniamo a Silvio Berlusconi. L’ultimo avvertimento gli giunge proprio dal Times il 7 maggio 2009, e in toni inequivocabili: “Nei suoi due maggiori mandati Berlusconi ha fallito nelle riforme così disperatamente urgenti in Italia… La UE e l’OECD continuamente rivelano l’eccessiva regolamentazione del business (in Italia, nda)… I lavoratori statali rimangono protetti… e le sue sbandierate riforme del sistema pensionistico sono state minimali… le tasse rimangono alte, e la resistenza del suo governo a tagliare la spesa pubblica è enorme” (11).v Tre settimane dopo, il possente quotidiano britannico perderà di colpo la sua celebrata compostezza dopo 224 anni, e dalle sue pagine partirà un attacco sgangherato e volgare a Silvio Berlusconi. Vi si leggerà che è “un clown”, “un buffone sciovinista”, un playboy patetico, la cui performance con le signorine e nei confronti degli italiani curiosi della vicenda Noemi è inaccettabile, per il bene della democrazia e del mondo intero. Certo, come no.E così, di nuovo, l’Italia antagonista di sinistra si è fatta infinocchiare degli isterismi dei D’Avanzo, Travaglio e Santoro, Grillo e compagnia, ha di nuovo eletto a suo paladino l’ennesimo baraccone di destra neoliberale (dopo Freedom House), e insiste nell’ignorare che ciò che gli sta corrompendo la vita non è il lodo Alfano, o Emilio Fede, né il burattino Berlusconi, ma sua maestà Il Burattinaio, leggi Liberal Economics and Corporate Power. Eppure Clinton ce l’aveva detto: “It’s the economy, stupid”.Nota a margine per l’Egregio direttore del Times:“Sir, non mi risulta che negli anni cha vanno dal 1997 al 2007 il Suo giornale abbia mai usato termini così aggressivi per Mr Tony Blair, PM, mentre si rendeva corresponsabile di crimini contro l’umanità (Turchia, Timor, Ex Yugoslavia, Iraq, Palestina, Afghanistan…) e di alto tradimento della patria mandando a morire truppe britanniche su basi mendaci, oltre ad aver ridotto le classi disagiate della Gran Bretagna a livelli di povertà “pre-Vittoriana” (The Guardian), tanto che l’organizzazione Medecins du Monde ha dovuto aprire delle tende-cliniche di strada in diverse periferie urbane britanniche. Gradirei una spiegazione, Sincerely Yours, Paolo Barnard"Paolo Barnard
Fonte: www.paolobarnard.infoLink: http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=11617.06.2009
Note:
1) Stockholm Network, THE STATE OF THE UNION: MARKET-ORIENTED REFORM IN THE EU IN 2004
2) The Economist 7/01/2006
3) Der Spiegel 30/01/2006
4) April 20, 2006, Harvard Gazette
5) The Economist, Apr 3rd 2008
6) WSJ MARCH 25, 2008
7) Financial Times, Sep 22 2008
8) FT, October 18 2008
9) FT, May 28 2009
10) INTERNATIONAL MONETARY FUND ITALY: Staff Report for the 2008 Article IV Consultation. Prepared by Staff Representatives for the 2008 Consultation with Italy. January 7, 2009
11) The Times, 07 May 2009
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=6012
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lunedì 15 giugno 2009
Anche quest'analisi è interessante
L’Occidente, l’Iran e il falso mito democratico
15 Giugno 2009
“Come il resto del mondo siamo rimasti colpiti dal vigoroso dibattito e dall’entusiasmo generato dalle elezioni in Iran e particolarmente fra i giovani”, ha detto il portavoce della Casa Bianca all’indomani delle proteste scoppiate per la vittoria di Ahmadinejad. Questa dichiarazione riflette a meraviglia l’ingenuità con cui gli osservatori internazionali, e in particolare i media occidentali, hanno guardato al voto iraniano, credendo che bastasse davvero una rivolta maturata sui blog e i siti Internet per rovesciare un regime illiberale come la teocrazia khomenista.
Certo, quella iraniana è una popolazione giovane (il 6o per cento è nato dopo la Rivoluzione ed è altissima la percentuale dei nuovi elettori), una generazione attratta dai modelli e dagli stili di vita occidentali. Ma chi sono questi giovani? La sconfitta della “Onda verde” stretta attorno a Mousavi non è solo figlia dei brogli elettorali che hanno funestato le elezioni (i candidati dell’opposizione sono stati sconfitti anche nelle loro città natali!), così come la società iraniana non può essere ridotta unicamente alla capitale Teheran o alle principali città del Paese dov’è più forte la ribellione al regime.
Credere che i giovani iraniani siano esclusivamente quelli che manifestano a migliaia in queste ore – i figli dell’elite che vestono Armani e ascoltano heavy metal, i manager under 35 in giacca e cravatta che tirano pietre contro la Polizia – è un errore di valutazione. Ci sono anche altri giovani del proletariato urbano e rurale che hanno accettato e accettano l’ortodossia khomeinista. Quanti sono esattamente? Rispondere a questo interrogativo è fondamentale se vogliamo comprendere cos’è accaduto in Iran.
In secondo luogo il voto di venerdì dimostra che gli strumenti internettiani, da soli, non bastano a minare le basi di un sistema ideologico opprimente, tanto più che possono essere facilmente chiusi e oscurati. Fino a quando l’opposizione alla teocrazia rimarrà sul piano della “virtualità”, il cambiamento sarà un’utopia che non tiene conto di quella che è la realtà del potere costituito. D'altronde quando ci si sconnette da Internet per scendere in piazza arrivano puntualmente i Pasdaran di nero vestiti a bastonare chi si ribella.
Sgombrato il campo dal facile utopismo a cui si sono abbeverati obamiani e giornalisti occidentali, l’impressione è che i giovani iraniani che gridano “morte al dittatore!” non siano abbastanza forti e numerosi da poter esprimere un’egemonia, né che riescano a trovare una leadership autorevole che li rappresenti all’interno del Paese e fuori (se non poggiandosi ai moderati del regime come Mousavi). In ogni caso, non appena queste avanguardie si fanno avanti, diventando troppo pericolose, vengono puntualmente decapitate.
Piuttosto, ancora una volta dobbiamo inchinarci all'astuzia del duce Ahmadinejad. Un dittatore capace di far percepire al resto del mondo che l’Iran è una democrazia dove si vota, ci si ribella, si combatte dialetticamente (e non), mentre invece questa elezione è stata solo l'ultima vittoria preparata a tavolino dal regime, giocando sui sogni, le aspettative e le illusioni di un Occidente disposto a credere che le tirannidi si abbattono con Twitter e Facebook. Un discorso che vale per l’Iran ma anche per Cuba e la Moldavia.
http://www.loccidentale.it/articolo/l%E2%80%99occidente%2C+l%E2%80%99iran+e+il+falso+mito+democratico.0073324
15 Giugno 2009
“Come il resto del mondo siamo rimasti colpiti dal vigoroso dibattito e dall’entusiasmo generato dalle elezioni in Iran e particolarmente fra i giovani”, ha detto il portavoce della Casa Bianca all’indomani delle proteste scoppiate per la vittoria di Ahmadinejad. Questa dichiarazione riflette a meraviglia l’ingenuità con cui gli osservatori internazionali, e in particolare i media occidentali, hanno guardato al voto iraniano, credendo che bastasse davvero una rivolta maturata sui blog e i siti Internet per rovesciare un regime illiberale come la teocrazia khomenista.
Certo, quella iraniana è una popolazione giovane (il 6o per cento è nato dopo la Rivoluzione ed è altissima la percentuale dei nuovi elettori), una generazione attratta dai modelli e dagli stili di vita occidentali. Ma chi sono questi giovani? La sconfitta della “Onda verde” stretta attorno a Mousavi non è solo figlia dei brogli elettorali che hanno funestato le elezioni (i candidati dell’opposizione sono stati sconfitti anche nelle loro città natali!), così come la società iraniana non può essere ridotta unicamente alla capitale Teheran o alle principali città del Paese dov’è più forte la ribellione al regime.
Credere che i giovani iraniani siano esclusivamente quelli che manifestano a migliaia in queste ore – i figli dell’elite che vestono Armani e ascoltano heavy metal, i manager under 35 in giacca e cravatta che tirano pietre contro la Polizia – è un errore di valutazione. Ci sono anche altri giovani del proletariato urbano e rurale che hanno accettato e accettano l’ortodossia khomeinista. Quanti sono esattamente? Rispondere a questo interrogativo è fondamentale se vogliamo comprendere cos’è accaduto in Iran.
In secondo luogo il voto di venerdì dimostra che gli strumenti internettiani, da soli, non bastano a minare le basi di un sistema ideologico opprimente, tanto più che possono essere facilmente chiusi e oscurati. Fino a quando l’opposizione alla teocrazia rimarrà sul piano della “virtualità”, il cambiamento sarà un’utopia che non tiene conto di quella che è la realtà del potere costituito. D'altronde quando ci si sconnette da Internet per scendere in piazza arrivano puntualmente i Pasdaran di nero vestiti a bastonare chi si ribella.
Sgombrato il campo dal facile utopismo a cui si sono abbeverati obamiani e giornalisti occidentali, l’impressione è che i giovani iraniani che gridano “morte al dittatore!” non siano abbastanza forti e numerosi da poter esprimere un’egemonia, né che riescano a trovare una leadership autorevole che li rappresenti all’interno del Paese e fuori (se non poggiandosi ai moderati del regime come Mousavi). In ogni caso, non appena queste avanguardie si fanno avanti, diventando troppo pericolose, vengono puntualmente decapitate.
Piuttosto, ancora una volta dobbiamo inchinarci all'astuzia del duce Ahmadinejad. Un dittatore capace di far percepire al resto del mondo che l’Iran è una democrazia dove si vota, ci si ribella, si combatte dialetticamente (e non), mentre invece questa elezione è stata solo l'ultima vittoria preparata a tavolino dal regime, giocando sui sogni, le aspettative e le illusioni di un Occidente disposto a credere che le tirannidi si abbattono con Twitter e Facebook. Un discorso che vale per l’Iran ma anche per Cuba e la Moldavia.
http://www.loccidentale.it/articolo/l%E2%80%99occidente%2C+l%E2%80%99iran+e+il+falso+mito+democratico.0073324
A proposito di Obama
Ecco la risposta di Albert a questo articolo, del cui autore mi ripugna anche scrivere il nome http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=358894
L'avevo già ricevuta in anteprima dallo staff di McCain che l'ha avuta circa una settimana fa attraverso i suoi canali.
Analisi interessante, che non aggiunge una sillaba a ciò che hanno già scritto altri analisti politici. In questa c'è, di più, la nota propensione di Guzzanti a volere entrare nel cervello altrui e poi raccontare ciò che uno potrà o vorrà fare.
Obama ha davanti tutta una serie di problemi, primo dei quali quello che, dal 20 gennaio ad oggi, non ha ancora avuto un vero successo da potere incorniciare. A Guzzanti potrà forse parere poco, perchè al limite ci sarebbe lui subito lì pronto a collaborare con l'abbronzato per fargli imboccare la retta via, ma invece, ed al contrario, il non potere avere nulla di eclattante da incorniciare, ogni giorno rende Obama sempre più debole.
Per citarti un esempio, in America esiste una lobby ebraica potentissima, quella che nel 1948 rifornì gli ebrei del neonato Stato di Israele delle armi necessarie per difendersi dagli attacchi degli stati arabi che non avevano accettato la risoluzione della nascita della nuova nazione nemica. Se Obama finirà, come finirà, per irritare questa lobby, che oggi è ancora più potente, forse si troverà una croce fiammeggiante davanti ai giardini della Casa Bianca, a mò di avvertimento. Infatti la sua elezione non è ancora andata giù ad oltre la metà degli americani.
Dobbiamo infatti ricordare che alle elezioni da lui vinte, ha partecipato al voto meno del 50% degli aventi diritto, e negli USA deegli ultimi decenni mai una votazione popolare ha superato il 55% delle schede nell'urna.
Lui ha avuto poco più del 20% di quei voti, ma non sono quelli che decidano, perchè negli USA ciò che conta sono i voti dei grandi elettori, e ci sono stati piccoli che hanno più grandi elettori dei grandi stati. Lui ha vinto giocando su questo, ma nel paese è nettamente in minoranza, che quel 50% di elettori che non sono andati alle urne, per un 40% sono formati da gente che ancora adesso mal digerisce l'equiparazione dei diritti civili della popolazione di colore.
E che quindi non ha gradito che un negro ora sia anche il suo capo. Insomma, è un pò la reazione che, alla lunga ed in Italia, ha fatto si che la maggioranza degli elettori, anche del sud, abbia finito per sciegliere un lombardo per guidare il paese. Dopo tutte le fregature di generazioni di politici meridionali, che hanno rubato tutto il rubabile, è accaduto l'impensabile, che dei meridionali non si fidano più dei meridionali.
L'America oggi ha davanti un grosso problema da risolvere. All'improvviso si trova ad avere un Presidente che non ha affatto la cultura della forza dell'America, e questo è un problema di tale gravità che Obama, che non è americano e non ha lo spirito patrio di un vero americano, mai potrà capire, anche se lui continua, con la sua retorica che presto diventerà bolsa, a fare l'americano alla John Wayne.
Giustamente uno quì a detto: se non hai fatto il servizio militare, una vera tradizione di famiglia in questo paese, e se non giochi a baseball, non sei americano. E l'abbronzato non ha fatto il servizio militare e segue il baseball solo perchè c'è costretto, dicendo che lui ama il basket. Il basket è il terzo sport americano per eccellenza, dopo il baseball e il football, quindi lui è terzo in classifica, come lo è a Washington, dove più potente di lui c'è un certo Bill ed una certa Hillary.
L'avevo già ricevuta in anteprima dallo staff di McCain che l'ha avuta circa una settimana fa attraverso i suoi canali.
Analisi interessante, che non aggiunge una sillaba a ciò che hanno già scritto altri analisti politici. In questa c'è, di più, la nota propensione di Guzzanti a volere entrare nel cervello altrui e poi raccontare ciò che uno potrà o vorrà fare.
Obama ha davanti tutta una serie di problemi, primo dei quali quello che, dal 20 gennaio ad oggi, non ha ancora avuto un vero successo da potere incorniciare. A Guzzanti potrà forse parere poco, perchè al limite ci sarebbe lui subito lì pronto a collaborare con l'abbronzato per fargli imboccare la retta via, ma invece, ed al contrario, il non potere avere nulla di eclattante da incorniciare, ogni giorno rende Obama sempre più debole.
Per citarti un esempio, in America esiste una lobby ebraica potentissima, quella che nel 1948 rifornì gli ebrei del neonato Stato di Israele delle armi necessarie per difendersi dagli attacchi degli stati arabi che non avevano accettato la risoluzione della nascita della nuova nazione nemica. Se Obama finirà, come finirà, per irritare questa lobby, che oggi è ancora più potente, forse si troverà una croce fiammeggiante davanti ai giardini della Casa Bianca, a mò di avvertimento. Infatti la sua elezione non è ancora andata giù ad oltre la metà degli americani.
Dobbiamo infatti ricordare che alle elezioni da lui vinte, ha partecipato al voto meno del 50% degli aventi diritto, e negli USA deegli ultimi decenni mai una votazione popolare ha superato il 55% delle schede nell'urna.
Lui ha avuto poco più del 20% di quei voti, ma non sono quelli che decidano, perchè negli USA ciò che conta sono i voti dei grandi elettori, e ci sono stati piccoli che hanno più grandi elettori dei grandi stati. Lui ha vinto giocando su questo, ma nel paese è nettamente in minoranza, che quel 50% di elettori che non sono andati alle urne, per un 40% sono formati da gente che ancora adesso mal digerisce l'equiparazione dei diritti civili della popolazione di colore.
E che quindi non ha gradito che un negro ora sia anche il suo capo. Insomma, è un pò la reazione che, alla lunga ed in Italia, ha fatto si che la maggioranza degli elettori, anche del sud, abbia finito per sciegliere un lombardo per guidare il paese. Dopo tutte le fregature di generazioni di politici meridionali, che hanno rubato tutto il rubabile, è accaduto l'impensabile, che dei meridionali non si fidano più dei meridionali.
L'America oggi ha davanti un grosso problema da risolvere. All'improvviso si trova ad avere un Presidente che non ha affatto la cultura della forza dell'America, e questo è un problema di tale gravità che Obama, che non è americano e non ha lo spirito patrio di un vero americano, mai potrà capire, anche se lui continua, con la sua retorica che presto diventerà bolsa, a fare l'americano alla John Wayne.
Giustamente uno quì a detto: se non hai fatto il servizio militare, una vera tradizione di famiglia in questo paese, e se non giochi a baseball, non sei americano. E l'abbronzato non ha fatto il servizio militare e segue il baseball solo perchè c'è costretto, dicendo che lui ama il basket. Il basket è il terzo sport americano per eccellenza, dopo il baseball e il football, quindi lui è terzo in classifica, come lo è a Washington, dove più potente di lui c'è un certo Bill ed una certa Hillary.
domenica 14 giugno 2009
Commento all'articolo precedente
da Albert:
Gli shows politico/satirici sono fra i programmi più guardati dalle casalinghe americani, che costituiscono l'audience più importante e quello cui le reti TV nazionali e locali fanno riferimento per impostare i loro palinsesti.
Poi c'è un secondo fattore molto importante. Il calo progressivo, meglio chiamarla erosione, della popolarità di Obama presso l'elettore americano. Un esempio. I veri analisti economici sono molto dubbiosi che la cura Fiat possa avere efficacia sulla Chrysler, per le motivazioni che ormai tutti conoscono, non sono i modelli Fiat quelli che potranno risollevare le sorti della casa americana, tanto meno il modello industriale italiano che nulla a a che vedere con la realtà americana.
Gli stessi analisti hanno già dimostrato che un buon fallimento pilotato, il famoso Chapter 11 previsto dalla legislazione fallimentare USA, avrebbe consentito di eliminare tutte le tossicità che hanno portato la casa automobilistica all'attuale crisi, vendendo tutti gli assets improduttivi e limitando il potere delle banche. Tanto si sa benissimo che la Fiat non porta soldi, che i miliardi di dollari li dovrà mettere il governo e che alla fine chi pagherà tutta l'operazione sarà il contribuente.
Quindi cosa occorre? Che l'attenzione venga il più possibile deviata da questi argomenti e catturata da fattori esterni, e cosa di meglio delle pruriginosità per le vicende private di un leader straniero così visibile come Berlusconi, oltrettutto prendendo due piccioni con una sola fava: cioè distrarre l'attenzione dei media usando Berlusconi e allontanare le luci della ribalta dalle gravi carenze di Obama.
Quando Berlusconi chiamò "abbronzato" Obama, sapeva esattamente cosa diceva, cioè evidenziava che più che i programmi, ciò che aveva favorito la sua elezione erano state le differenze somatiche, la pelle nera in particolare, cioè il primo presidente di colore, e la capacità affabulatoria del negretto, capace di convincere un leone a diventare vegetariano, che in assenza di simpatia elettorale in Hillary presso l'elletorato, poteva favorire l'elezione di un democratico, stante la contemporanea partecipazione di McCain, un eroe americano tipico, ma molto meno mediatico dell'avversario, in età avanzata e con problemi di salute e mobilità data dalle sue numerose ferite di guerra e ciccatrici interiori.
Questo Berlusconi lo aveva capito perfettamente, e come lui lo aveva capito Aznar, per esempio, che sta riscaldando i muscoli in Spagna, come lo ha perfettamente capito La Merkel, che se ha spinto il governo tedesco a prestare 1.5 miliardi di € alla Opel, lo ha fatto perchè anche lei poco convinta della capacità Fiat, che se vincitrice avrebbe indebolito l suo governo in un momento delicato, come lo ha capito Sarkosy, che gode di una base fortissima in Francia. Questi sono gli effettivi quattro uomini politici mondiali che oggi possono vantare d'essere quelli capaci di presentare programmi ed attuarli. Tutti gli altri, moltissimi dell'area progressista, stanno sempre più perdendo consenso e rischiano di danneggiare anche Obama, la cui inettitudine sta diventando una barzelletta.
Non so se hai notato ma negli ultimi tempi poco si parla della politica interna americana e moltissimo di quella internazionale, problemi di varia natura che, fra l'altro, sono veri e reali e mettono a repentaglio, ogni giorno, gli equilibri geopolitici.
Il governo americano, con le presidenze americane, ha sempre presentato problemi etici dati dai vari presidenti, particolarmente in campo democratico, basta ricordare Kennedy con le sue amicizie femminili, Lyndon Johnson con il suo grigiore, Carter con la sua visione mistica del mondo, Clinton con l'ignoranza in economia e l'iperattivismo sessuale, che ha umiliato la Hillary, oltretutto convinta com'è di essere una gran gnocca. Ora di Obama iniziano a filtrare voci che la Michelle, che gran gnocca lo è sul serio e pare che nel periodo del college gradisse molto i giochini erotici, sia scontenta della passività crescente del marito, che ha pensieri che lo ammosciano, mentre la guardia del corpo della first lady è composta di uomini addestratissimi e pronti a dare tutti se stessi per la loro capa.
Quindi, conclusione, si deve distrarre l'attenzione, e Berlusconi è il capro espiatorio perfetto, Ma non so come finirà domani, quando arriverà a Washington per incontrare Obama, su richiesta dello stesso Obama che ha preceduto John McCain nella richiesta di un incontro informale con il capo del governo italiano, che al momento sta dimostrando d'essere uno degli uomini politici mondiali più sulla cresta dell'onda, ma anche bravo in economia, gestione dello stato e presa sull'elettorato, visto che il suo indice di gradimento ha superato anche quello che ebbe Kennedy, nel suo momento migliore.
La mia personale impressione che Berlusconi sovrasterà Obama di una buona spanna, anche se l'abbronzato è un metro e novanta
Mi vanto d'essere stato, nello staff di John, quello che più ha spinto per un suo incontro con Berlusconi, e il mio suggerimento è stato talmente ascoltato che sul presidente del Consiglio è stato creato un dossier incredibile, dove la sua storia professionale ed imprenditoriale lo ha fatto definire "The best business man never existed outside of USA", che equivale ad una incoronazione sul campo.
Poi c'è un secondo fattore molto importante. Il calo progressivo, meglio chiamarla erosione, della popolarità di Obama presso l'elettore americano. Un esempio. I veri analisti economici sono molto dubbiosi che la cura Fiat possa avere efficacia sulla Chrysler, per le motivazioni che ormai tutti conoscono, non sono i modelli Fiat quelli che potranno risollevare le sorti della casa americana, tanto meno il modello industriale italiano che nulla a a che vedere con la realtà americana.
Gli stessi analisti hanno già dimostrato che un buon fallimento pilotato, il famoso Chapter 11 previsto dalla legislazione fallimentare USA, avrebbe consentito di eliminare tutte le tossicità che hanno portato la casa automobilistica all'attuale crisi, vendendo tutti gli assets improduttivi e limitando il potere delle banche. Tanto si sa benissimo che la Fiat non porta soldi, che i miliardi di dollari li dovrà mettere il governo e che alla fine chi pagherà tutta l'operazione sarà il contribuente.
Quindi cosa occorre? Che l'attenzione venga il più possibile deviata da questi argomenti e catturata da fattori esterni, e cosa di meglio delle pruriginosità per le vicende private di un leader straniero così visibile come Berlusconi, oltrettutto prendendo due piccioni con una sola fava: cioè distrarre l'attenzione dei media usando Berlusconi e allontanare le luci della ribalta dalle gravi carenze di Obama.
Quando Berlusconi chiamò "abbronzato" Obama, sapeva esattamente cosa diceva, cioè evidenziava che più che i programmi, ciò che aveva favorito la sua elezione erano state le differenze somatiche, la pelle nera in particolare, cioè il primo presidente di colore, e la capacità affabulatoria del negretto, capace di convincere un leone a diventare vegetariano, che in assenza di simpatia elettorale in Hillary presso l'elletorato, poteva favorire l'elezione di un democratico, stante la contemporanea partecipazione di McCain, un eroe americano tipico, ma molto meno mediatico dell'avversario, in età avanzata e con problemi di salute e mobilità data dalle sue numerose ferite di guerra e ciccatrici interiori.
Questo Berlusconi lo aveva capito perfettamente, e come lui lo aveva capito Aznar, per esempio, che sta riscaldando i muscoli in Spagna, come lo ha perfettamente capito La Merkel, che se ha spinto il governo tedesco a prestare 1.5 miliardi di € alla Opel, lo ha fatto perchè anche lei poco convinta della capacità Fiat, che se vincitrice avrebbe indebolito l suo governo in un momento delicato, come lo ha capito Sarkosy, che gode di una base fortissima in Francia. Questi sono gli effettivi quattro uomini politici mondiali che oggi possono vantare d'essere quelli capaci di presentare programmi ed attuarli. Tutti gli altri, moltissimi dell'area progressista, stanno sempre più perdendo consenso e rischiano di danneggiare anche Obama, la cui inettitudine sta diventando una barzelletta.
Non so se hai notato ma negli ultimi tempi poco si parla della politica interna americana e moltissimo di quella internazionale, problemi di varia natura che, fra l'altro, sono veri e reali e mettono a repentaglio, ogni giorno, gli equilibri geopolitici.
Il governo americano, con le presidenze americane, ha sempre presentato problemi etici dati dai vari presidenti, particolarmente in campo democratico, basta ricordare Kennedy con le sue amicizie femminili, Lyndon Johnson con il suo grigiore, Carter con la sua visione mistica del mondo, Clinton con l'ignoranza in economia e l'iperattivismo sessuale, che ha umiliato la Hillary, oltretutto convinta com'è di essere una gran gnocca. Ora di Obama iniziano a filtrare voci che la Michelle, che gran gnocca lo è sul serio e pare che nel periodo del college gradisse molto i giochini erotici, sia scontenta della passività crescente del marito, che ha pensieri che lo ammosciano, mentre la guardia del corpo della first lady è composta di uomini addestratissimi e pronti a dare tutti se stessi per la loro capa.
Quindi, conclusione, si deve distrarre l'attenzione, e Berlusconi è il capro espiatorio perfetto, Ma non so come finirà domani, quando arriverà a Washington per incontrare Obama, su richiesta dello stesso Obama che ha preceduto John McCain nella richiesta di un incontro informale con il capo del governo italiano, che al momento sta dimostrando d'essere uno degli uomini politici mondiali più sulla cresta dell'onda, ma anche bravo in economia, gestione dello stato e presa sull'elettorato, visto che il suo indice di gradimento ha superato anche quello che ebbe Kennedy, nel suo momento migliore.
La mia personale impressione che Berlusconi sovrasterà Obama di una buona spanna, anche se l'abbronzato è un metro e novanta
Mi vanto d'essere stato, nello staff di John, quello che più ha spinto per un suo incontro con Berlusconi, e il mio suggerimento è stato talmente ascoltato che sul presidente del Consiglio è stato creato un dossier incredibile, dove la sua storia professionale ed imprenditoriale lo ha fatto definire "The best business man never existed outside of USA", che equivale ad una incoronazione sul campo.
Della serie: ride bene chi ride per ultimo
Alla tv Usa si ride di Berlusconi "Dobbiamo scusarci con Clinton"NEW YORK - Il suo è uno dei programmi più popolari della televisione americana. Il Daily Show di Jon Stewart - sorta di Striscia molto politicizzata - ogni sera inchioda con la sua satira graffiante l'establishment politico ed economico americano, le pop star e l'intellighenzia, senza esclusione di colpi. L'altra sera sulla graticola di Stewart - più volte presentatore della notte degli Oscar - è finito Silvio Berlusconi con tutto il corollario: il caso Noemi, il caso Mills, le foto di Villa Certosa.Impietoso, Stewart si è lasciato andare a battute pesanti (a volte anche involontariamente infelici, come il riferimento alla madre del premier, recentemente scomparsa), con qualche imprecisione nei tempi e nei modi della comunque complessa epopea del leader italiano, suscitando l'ilarità del pubblico. "Se cercate uno scandalo - ha esordito - guardate un po' in Europa". Coadiuvato da una martellante serie di servizi dei maggiori network (Cbs, Fox, Nbc, Cnn), Stewart ha saltabeccato tra i casi giudiziari che hanno coinvolto Berlusconi fino al lodo Alfano di "autoimpunità". E al pubblico che esplode in una risata, ammicca: "La mia audience ama i luoghi fuorilegge". Con le elezioni europee, però, "Berlusconi ha cercato di abbandonare il suo caratteraccio... di giorno. Mentre dopo il crepuscolo...". E qui il riferimento alla "sweet story" di Noemi - "lo chiama daddy, ma quel che è davvero bizzarro è che chiama suo padre primo ministro" e ancora: "Ha cercato di portarla nel suo furgone", come fanno i ragazzi americani per fare sesso quando la casa è occupata. Insomma: "Dobbiamo scusarci con Rod Blogojevich" (il governatore dell'Illinois arrestato per corruzione). "Rod, so che hai cercato di vendere un ospedale pediatrico.. ma a confronto di questo tizio.... È il caso di dire mamma mia!".Naturalmente, "il premier nega tutto e non c'è modo di inchiodarlo, a meno che...". Partono le foto di villa Certosa, con le ragazze in topless: "Le sue feste sembrano proprio come le mie. Eccetto che io sulle ginocchia tengo dei gatti". Ce n'è anche per l'ex premier ceco Topolanek, mostrato nella foto pubblicata dal Pais, nudo vicino al "grottino" di Villa Certosa: "Il suo pene forse sta indicando qualche punto di interesse architettonico intorno alla grotta". Insomma, conclude Stewart, a vedere tutto questo e ripensando al più famoso scandalo sessuale della recente storia politica americana, viene proprio dire: "Scusa, Bill Clinton".
domenica 7 giugno 2009
Il discorso di Barack
Europa dimenticata
E’ un’ovvietà il fatto che i discorsi politici, come qualunque altro discorso, assumano significati diversi per gli ascoltatori in ragione delle differenti caratteristiche e identità degli ascoltatori stessi. Apparentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discorso può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati diversi col passar del tempo, in ragione degli eventi verificatisi dopo che quel discorso è stato pronunciato. Tutti nel mondo (sia quelli che lo hanno approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi novità contenute nel discorso pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio completamente nuovo (una nuova chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicuramente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scontro di civiltà». Ed è la stessa ragione per cui è piaciuto a tanti europei, nonché a tutta quella parte dell’America che ha votato per Obama e vuole lasciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le tensioni accumulate durante l’amministrazione Bush. Ma poiché i discorsi politici assumono sempre significati diversi a seconda dell’identità degli ascoltatori, è anche possibile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza dell’America da parte di altri settori dell’universo islamico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizionalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideologica all’Occidente, e all’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetrazione e di diffusione fra i musulmani. A quel mondo, infatti, non può sfuggire che, se Obama rappresenta, come sicuramente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui disponeva in precedenza, che avrà forse più difficoltà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volontà e le proprie soluzioni.
È possibile dunque che nei prossimi mesi si manifesti una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe rispondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di debolezza da sfruttare cinicamente. E, probabilmente, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non seguiranno alle parole. Il discorso pronunciato da Obama, fra qualche tempo, verrà riletto in un modo o in un altro a seconda di ciò che l’Amministrazione americana sarà stata in grado di fare. Obama si è assunto, certo consapevolmente, col suo discorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mondo islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella conduzione di quelle che considera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachistano). Deve, e questo è persino più difficile, rilanciare il processo di pace israeliano-palestinese.
Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi come mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloccare dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a capo del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scommessa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politica pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è così, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica radicale dello status quo mediorientale, allora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Oriente entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre.
C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragione, che Obama è, in virtù delle sue esperienze e della sua formazione, un multiculturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la categoria di Occidente e, quindi, anche il rapporto con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto constatare anche ieri in Francia durante le celebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente francese Sarkozy, centrato sui legami fra Francia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rinsaldare, Obama ha risposto con un messaggio, come sempre retoricamente abile, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiaggia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti.
Angelo Panebianco 07 giugno 2009
E’ un’ovvietà il fatto che i discorsi politici, come qualunque altro discorso, assumano significati diversi per gli ascoltatori in ragione delle differenti caratteristiche e identità degli ascoltatori stessi. Apparentemente meno ovvio, ma non meno vero, è il fatto che lo stesso discorso può acquistare, nella mente di un qualunque ascoltatore, significati diversi col passar del tempo, in ragione degli eventi verificatisi dopo che quel discorso è stato pronunciato. Tutti nel mondo (sia quelli che lo hanno approvato sia quelli che lo hanno criticato) hanno colto le grandi novità contenute nel discorso pronunciato da Barack Obama in Egitto, il fatto che egli abbia affrontato con un approccio completamente nuovo (una nuova chiave di lettura, un nuovo lessico) il rapporto fra America e Islam. Il suo messaggio è sicuramente piaciuto a quella parte del mondo islamico che non vuole rimanere intrappolata nello «scontro di civiltà». Ed è la stessa ragione per cui è piaciuto a tanti europei, nonché a tutta quella parte dell’America che ha votato per Obama e vuole lasciarsi il più rapidamente possibile alle spalle le tensioni accumulate durante l’amministrazione Bush. Ma poiché i discorsi politici assumono sempre significati diversi a seconda dell’identità degli ascoltatori, è anche possibile che il messaggio di Obama venga letto come un indizio, se non una prova, della debolezza dell’America da parte di altri settori dell’universo islamico: quel vasto mondo fondamentalista/tradizionalista (assai più ampio dell’area dei terroristi e dei loro simpatizzanti) che sull’opposizione ideologica all’Occidente, e all’America in particolare, ha fondato fin qui una parte importante della sua capacità di penetrazione e di diffusione fra i musulmani. A quel mondo, infatti, non può sfuggire che, se Obama rappresenta, come sicuramente rappresenta, una novità, culturale prima ancora che politica, egli è anche il Presidente di un’America gravemente indebolita dalla crisi, un’America che forse, a crisi finita, non disporrà più delle risorse di cui disponeva in precedenza, che avrà forse più difficoltà di un tempo a imporre, nelle aree turbolente del pianeta, la propria volontà e le proprie soluzioni.
È possibile dunque che nei prossimi mesi si manifesti una divisione dentro il mondo islamico fra la parte che vorrebbe rispondere positivamente alla mano tesa di Obama e la parte che la intenderà solo come un segno di debolezza da sfruttare cinicamente. E, probabilmente, prevarrà l’una o l’altra parte del mondo islamico in ragione degli eventi che seguiranno o non seguiranno alle parole. Il discorso pronunciato da Obama, fra qualche tempo, verrà riletto in un modo o in un altro a seconda di ciò che l’Amministrazione americana sarà stata in grado di fare. Obama si è assunto, certo consapevolmente, col suo discorso, un compito assai rischioso. Deve, in primo luogo, mostrare al mondo islamico che l’America è comunque ancora forte e determinata nella conduzione di quelle che considera «guerre giuste» (conflitto afghano-pachistano). Deve, e questo è persino più difficile, rilanciare il processo di pace israeliano-palestinese.
Obama deve rilanciare il processo di pace senza spezzare i legami (oggi tesi come mai in precedenza) con Israele, senza svenderne la sicurezza, e senza farsi bloccare dal rifiuto arabo e dall’estremismo di Hezbollah e Hamas. E deve venire a capo del contenzioso con l’Iran. Accettando l’idea di un Iran dotato del nucleare civile (notoriamente convertibile con facilità ad usi militari) Obama ha fatto una scommessa assai rischiosa. La scommessa è che l’Iran «rivoluzionario», l’Iran degli ayatollah, sia ormai pronto per una politica pragmatica, di «accomodamento», per una politica post-rivoluzionaria. Se è così, Obama vincerà la partita. Ma se non è così, se l’Iran resterà ancora a lungo uno stato rivoluzionario, teso alla modifica radicale dello status quo mediorientale, allora la politica del presidente americano si rivelerà un fallimento, e il Medio Oriente entrerà in un nuovo ciclo di instabilità e di guerre.
C’è un aspetto del discorso di Obama, ma in realtà anche di molti suoi discorsi precedenti, che, indirettamente, riguarda noi europei. Si è detto, credo con ragione, che Obama è, in virtù delle sue esperienze e della sua formazione, un multiculturalista capace di unire patriottismo e orgoglio americani con l’empatia per le culture extraoccidentali. Ciò con cui noi europei dovremo misurarci è il fatto che per lui sembra meno rilevante la categoria di Occidente e, quindi, anche il rapporto con l’Europa e con le radici europee della storia americana. Lo si è potuto constatare anche ieri in Francia durante le celebrazioni del sessantacinquesimo anno dallo sbarco in Normandia. Al discorso (peraltro, bellissimo) del presidente francese Sarkozy, centrato sui legami fra Francia e Stati Uniti, e Europa e Stati Uniti, che il D-Day permise di rilanciare e di rinsaldare, Obama ha risposto con un messaggio, come sempre retoricamente abile, tutto rivolto agli americani in patria e al sacrificio dei combattenti americani di allora. L’Europa (a parte il pezzo di spiaggia in cui si svolse la storica battaglia), in quel discorso, praticamente, non c’era. Nel bene e nel male, è un problema con cui noi europei dovremo fare i conti.
Angelo Panebianco 07 giugno 2009
sabato 6 giugno 2009
Il presidente alieno: Barak Hussein Obama
IL PRESIDENTE ALIENO
Pubblicato il 02/12/08 alle 22:17:13 GMT da kinvuli
IL PRESIDENTE ALIENO CHI E’ BARAK HUSSEIN OBAMA, IL PRESIDENTE ELETTO DEGLI STATI UNITI? La sua biografia dice che nato il 4 Agosto del 1961, all’Ospedale Kapi’ olani di Honolulu nello stato Statunitense delle Hawaii, da madre Statunitense bianca (Stanley Ann Dunham) di 18 anni e da padre Keniota e mussulmano (Barak Obama Senior) di 23 anni.All’età di 2 anni il piccolo Barak Obama viene abbandonato dal padre, che rivedrà solo per alcune ore e per l’ultima volta nel 1971 (Barak Obama Senior moriva poi in Kenya nel 1982). Nel 1964, la madre di Obama divorzia dal marito Kenyota e sposa un Indonesiano(mussulmano) di nome LELO SOETORO, i tre si trasferiscono (nel 1967)in Indonesia a Jakarta, dove il piccolo Obama viene iscritto dal neopadrino alla scuola primaria indonesiana con il nome di BARRY SOETORO come studente mussulmano e cittadino indonesiano. Nel 1971 Barak Hussein Obama torna insieme alla madre ed alla sorella Maya Soetoro ad Honolulu per continuare gli studi, e vivere nella casa dei nonni materni, nel 1977 la madre torna da sola in Indonesia e poi in Pakistan (dove riceve la visita del figlio nel 1978, anno in cui era proibito ai cittadini americani effettuare viaggi in quel paese, probabilmente Obama ha usato il passaporto indonesiano).Nel 1979 Barak Hussein Obama, si diploma ad Honolulu e lo stesso anno si trasferisce a Los Angels per continuare gli studi (2 anni), poi a New York , all’Università di Colombia - non era una cima -(dove riceve un mutuo da una banca per pagarsi gli studi, circa 40,000 dollari) ed infine alla prestigiosa (e per facoltosi) Università di Harvard (un ex Lettore (?) http://townhall.com/blog/g/c2df500d-0189-47d8-a454-54de9f6584c3 dell’università - ED EX LEGALE DI Malcom X - testimonia che Obama fu presentato da un certo Al Mansour, un consigliere di un principe dell’Arabia Saudita, che probabilmente pagò anche le rette universitarie). Il secondo emendamento della Costituzione Americana sentenzia: - Possono essere eletti alla Presidenza degli Stati Uniti solo i “NATURAL BORN CITIZIEN”, cioè: a) Solo quei cittadini nati da genitori americani (entrambi) sul territorio degli Stati Uniti d’America. b) Il cittadino deve aver risieduto, interrottamente(compreso il giorno della nascita) per almeno 14 anni sui territori degli Stati Uniti. c) La madre del cittadino deve aver compiuto il 19mo anno alla nascita dello stesso. d) Il cittadino deve aver giurato fedeltà solo ed unicamente alla Costituzione degli Stati Uniti (per cui il cittadino non può avere o aver avuto una doppia cittadinanza, per essere eletto Presidente). Ci sono negli USA ben 18 cause pendenti contro Obama, ma il Presidente eletto è riuscito a bloccarle quasi tutte per motivi di forma ma non di merito, infatti il suo Certificato di nascita non salta fuori, la tensione sale, entro il 5 Dicembre si terrà una manifestazione a Washington contro l'elezione di Obama a Presidente ed il giorno 5 Dicembre la Corte Suprema deciderà in merito alle qualifiche di Obama, staremo a vedere. Intanto oggi è stata pubblicata una "lettera aperta" ad Obama sul Chicago Tribune, vedere sito: http//www.WeThePeopleFoundation.org (segue traduzione)kinvuli SITI INTERESSATI: http://www.freedommarch.org http://www.obamacrimes.com
LETTERA APERTA A BARAK HUSSEIN OBAMA: Sei tu’ un cittadino originario e nativo degli Stati Uniti? Sei tu’ legalmente eleggibile alla Presidenza degli Stati Uniti d’America? 1° Dicembre, 2008 Mr. Barack Obama Barack Obama Transition Office Kluczynski Federal Building 230 So. Dearborn St., Chicago, Illinois 60604 Caro Mr. Obama: Rappresentando migliaia di cittadini Americani responsabili, i quali hanno innanzitutto giurato di difendere la Costituzione degli Stati Uniti d’America, ho il dovere impostomi dalla mia posizione di richiederti di rimediare a un’apparente violazione della Costituzione. Probanti evidenze sostengono la richiesta; che a te sia impedita la nomina all’Ufficio della Presidenza, perché le stesse evidenze dimostrano la violazione della clausola Costituzionale del 2° Emendamento della Costituzione, inerente la cittadinanza del Presidente degli Stati Uniti. Per esempio: E’ stato mostrato su internet un tuo “Certificato di Nascita” non firmato, falsificato e discreditato dagli esperti, un modulo creato tramite computer nel 2007, un modulo di nascita mancante di quelle informazioni vitali, rintracciabili su qualsiasi Certificato di nascita, originale firmato a mano, come: l’indirizzo dell’ospedale, la firma del medico preposto e l’età’ della madre. Il Dipartimento della Sanità dello Stato delle Hawaii non conferma la tua asserzione di essere nato alle Hawaii. Affidavit legali costatano che tu’ sei nato in Kenya. In una registrazione su nastro magnetico tua nonna paterna dichiara di essere stata presente alla tua nascita in Kenya. Le leggi degli Stati Uniti in atto nel 1961 negano la cittadinanza Americana a qualsiasi bambino nato in Kenya, se al momento della nascita il padre fosse stato di nazionalità Keniota e se la madre avesse avuto meno di diciannove anni di età. Nel 1965 tua madre rinunciò legalmente a qualsivoglia cittadinanza (sia keniota o americana che tu e tua madre avreste avuto), sposando in quell’anno un cittadino indonesiano e divenendo così entrambi cittadini naturalizzati indonesiani. Tu hai ripetutamente rifiutato di fornire l’evidenza della tua eleggibilità’ quando ti è stato richiesto formalmente per vie legali. Allo stesso tempo tu sei riuscito a far dichiarare a diversi giudici di “non avere i poteri” con i quali ordinarti di provare la tua eleggibilità’ per assumere la Presidenza degli Stati Uniti. Incredibilmente, un giudice delle Hawaii ha dichiarato testualmente che sarebbe un’invasione della tua privacy richiedere l’ordine per accedere al tuo Certificato di Nascita Originale per provare la tua eleggibilità’ alla Presidenza. Prima che tu possa legittimamente esercitare uno qualsiasi dei poteri attribuiti al Presidente degli Stati Uniti, tu devi assolutamente aderire ai criteri di eleggibilità’ stabiliti dalla Costituzione. Tu hai il dovere morale, legale e fiduciario di profferire dette evidenze. Se tu assumessi l’ufficio della Presidenza senza aver provato prima di tutto e in buona fede di essere un “cittadino naturale, nato negli Stati Uniti da genitori americani”, tu provocherai una crisi tale da mettere in pericolo la pace e la stabilità della Nazione. Per esempio: Tu sarai inviso da gran parte degli americani come un usurpatore. Le Forze Armate non avranno l’obbligo legale di obbedirti. Nessun civile dell’amministrazione governativa obbedirà a qualsiasi dei tuoi proclami. Le nomine dei Giudici della Corte Suprema da te nominate, saranno nulle. Il Congresso non potrà legiferare non potendo lo stesso acquisire la firma di un Presidente in “Bona fide”. Il Congresso politicamente diviso non avrà gli strumenti per rimuovere mediante “impeachment” un usurpatore dall’ufficio della Presidenza, causando cosi un caos politico, incluso potenziali conflitti armati in generale e/o tra gli stati o tra la popolazione per rendere effettiva la rimozione dell’usurpatore. In considerazione della montante crisi costituzionale dovuta dalla totale mancanza di evidenze richieste che stabiliscano senza ombra di dubbio la tua “eleggibilità’”, sono obbligato dal mio status di rappresentante di un gran numero di cittadini americani a consegnarti questa Petizione del I° Emendamento per la rimozione di detta violazione della Costituzione. Con tutto il rispetto dovuto, io ti chiedo formalmente di ordinare alle persone comunali incaricate della Città di Honolulu, nello stato delle Hawaii, di mettere a disposizione dei nostri esperti forensi il tuo Certificato originale di nascita per i seguenti giorni 5, 6 e 7 Dicembre 2008. Inoltre, ti chiedo di spedire i seguenti documenti al seguente indirizzo: “the National Press Club in Washington DC”, entro le ore 10 am dell’8 Dicembre, 2008, indirizzati alla mia attenzione: Una copia certificate del tuo Certificato “Originale” di nascita. Copie certificate con timbro rilasciate ai seguenti nominativi Barack Hussein Obama, Barry Soetoro, Barry Obama, Barack Dunham e Barry Dunham. Una copia certificate del tuo Riconoscimento di cittadinanza. Una copia certificate del tuo “Giuramento di Fedelta’ alla Costituzione”. Copie certificate dei moduli di ammissione all’ Occidental College, alla Columbia University ed alla Harvard Law School. Copie certificate di qualsiasi documento legale che provino il cambiamento del tuo nome. Ogni membro del Collegio Elettorale, che il giorno 15 Dicembre decidera’ di votarti o meno alla Presidenza, ha il dovere costituzionale di accertarsi che tu sia un Cittadino Naturale degli Stati Uniti. A tutt’oggi non esiste nessuna evidenza nei pubblici registri (ne alcuna evidenza e’ stata da te prodotta), ciò elimina ogni tua pretesa all’assunzione dell’ufficio del Presidente, perché tu non hai i requisiti richiesti dalla Costituzione. Tutti gli State’s Electors sono stati avvisati del fatto che a meno ché tu fornisca evidenze documentate prima del 15 Dicembre, evidenze che proverebbero la tua eleggibilità’, loro non potranno votare in tuo favore senza commettere un atto di tradimento alla Costituzione. “In un sistema governativo fondato sulle leggi, lo stesso sistema è messo in pericolo se lo stesso fallisce di osservare le leggi scrupolosamente. Il nostro sistema governativo e’ il potente ed onnipresente maestro. Benevolmente o forzatamente esso impone I suoi insegnamenti a tutto il popolo con i suoi esempi. Il crimine e’ contagioso. E se il sistema governativo viola le sue stesse leggi, esso promuove l’inosservanza delle leggi da parte di qualsiasi cittadino, invitandolo a commettere crimini o a farsi giustizia da solo, il passo verso l’anarchia e’ breve.” Causa: Olmstead v. U.S., 277 U.S. 438 Ti ringrazio per la tua comprensione e cooperazione sulla risoluzione di questa urgente e problematica situazione. Sinceramente, Robert L. Schulz Chairman We The People Foundation For Costitutional Eucation, Inc.
http://www.lisistrata.com/cgi-bin/tgfhydrdeswqenhgty/index.cgi?action=viewnews&id=3854
giovedì 4 giugno 2009
Subdolo e meschino attacco
02/06/2009) - Dietro il subdolo e meschino attacco a Silvio Berlusconi a soli cinque giorni dalle Elezioni Europee ed amministrative, da parte del prestigioso quotidiano britannico The Times, ci sarebbe l’anziano miliardario australiano, Rupert Murdoch, 78 anni, con una moglie più giovane di lui di 37 anni, proprietario di due Tv internazionali, Sky (Europa) e Fox News (Usa) e proprietario ed editore di 175 fra riviste e quotidiani sparsi per tutto il globo. Murdoch , infatti è presidente di News Corporation, e pubblica 175 giornali nel mondo, tra cui The Times, The Sunday Times, The Sun, The News of the World nel Regno Unito, il New York Post ed il Weekly Standard negli Stati Uniti. 40 milioni di esemplari alla settimana in totale, venduti in tutti i continenti.
Lord Black conta tra le sue pubblicazioni il Daily ed il Sunday Telegraph in Gran Bretagna, il Chicago Sun Times oltre Atlantico, ed il Jerusalem Post in Israele. Forbes stima nel 2008 il suo patrimonio in 8,3 miliardi di USD, questo fa di lui il 109esimo uomo più ricco del mondo. Dopo aver iniziato con giornali, magazines e stazioni televisive nella sua Australia, le produzioni di Murdoch si espansero prevalentemente nel Regno Unito e negli Stati Uniti, per poi approdare in quasi tutti gli angoli del pianeta (il suo gruppo editoriale raggiunge ogni giorno circa 4,7 miliardi di persone, i 3/4 della popolazione globale). Negli ultimi anni, Murdoch è diventato uno dei più importanti imprenditori del mondo nel digitale satellitare, nel campo cinematografico e in molte altre forme di media. L’attacco sarebbe in relazione a Sky. Il Governo italiano infatti ha aumentato per questa TV l’Iva del 20% e Murdoch è nervoso sia per la questione dell’iva che è stata raddoppiata che per gli iscritti a Sky Italia che sono quasi 5 milioni: lui ne voleva almeno sette nel 2009. Ma i dati ufficiali sono questi e gli affari non vanno come desidera il signor Murdoch, mentre la pay tv del Cavaliere, Mediaset premium, va bene. Anzi benissimo. E ha raggiunto 3 milioni di tessere. Uno scontro tra imprenditori miliardari ci sarebbe, dunque dietro, l’attacco di The Times. Non solo: Murdoch deve rinnovare il contratto con Sky Italia e Rai Sat che ha cinque canali: da Viale Mazzini chiedono almeno un miliardo e mezzo di euro per 7 anni. Il magnate australiano offre solo 350 mila euro (per sette anni) per il bouquet RaiSat che comprende (Extra, Prem1um, Cinema, Smash Girls, YoYo). E Murdoch dopo questo scenario a lui non favorevole sarebbe passato al contrattacco. Un editoriale che definisce Berlusconi “anziano libertino”, che “frequenta donne più giovani di lui di con una differenza d’età di 50 anni”, e da ultimo definito un clown senza più maschera. «L’aspetto più di cattivo gusto del comportamento di Silvio Berlusconi – scrive The Times - non è che egli sia un clown sciovinista, né che rincorra donne che hanno 50 anni meno di lui, approfittando della sua posizione per offrire loro lavoro come modelle, assistenti personali o persino, assurdamente, candidate per l’Europarlamento. Quello che è più scioccante è l’assoluto disprezzo con cui si rivolge all’opinione pubblica italiana». Che infatti si sente così maltrattata dal Cavaliere da avergli fatto vincere le ultime elezioni. «Il libertino attempato - prosegue - può trovare divertente, o anche coraggioso, comportarsi da playboy vantando le sue conquiste, umiliando sua moglie, o facendo commenti che molte donne giudicherebbero grottescamente inappropriati. Egli non è l’unico o il solo il cui indegno comportamento è inappropriato al ruolo. Ma quando vengono poste legittime domande su relazioni che sfiorano lo scandalo e i giornali lo sfidano a dare spiegazioni che, al meglio, sembrano sconcertanti - è la sentenza del quotidiano di Murdoch - la maschera del clown cade. Egli minaccia i giornali e le emittenti televisive che controlla, invoca la legge per proteggere la sua privacy, diffonde comunicati evasivi e contraddittori e infine promette in modo melodrammatico di dimettersi se colto a mentire». E ancora l’editoriale conclude con un pesante attacco alla leadership del premier che presiederà il G8 a luglio a l’Aquila: «L’Italia – scrive il quotidiano - ospita il summit del G8 quest’anno: nel vertice si terranno importanti discussioni, dove ai governi occidentali si richiede una più solida collaborazione per combattere il terrorismo e il crimine internazionale. Berlusconi si ritiene un amico di Vladimir Putin. Il suo Paese è un membro importante della Nato. Ed è anche parte dell’eurozona che è alla prova nell’attuale crisi globale finanziaria. Non sono solo gli elettori italiani a chiedersi che cosa stia accadendo, lo fanno anche stupefatti gli alleati dell’Italia». Come ho scritto l’altro giorno su IMGPress non intendo fare il difensore d’ufficio di Silvio Berlusconi, però questo attacco vile, miserabile, e violento non è rivolto a costruire un’Italia diversa, più giusta e moderna come vuol far credere The Times, non è disinteressato, non vuol far emergere una questione morale in Italia, ma nasce da pretese di un magnate australiano, cinico e spietato, di avere corsie preferenziali per Sky Italia e il cui obiettivo è unicamente fare business in casa nostra. Poi, se stritola un Presidente del Consiglio in carica e lo fa a pezzettini, se lo mette alla berlina, se lo ridicolizza di fronte al mondo intero, non gliene frega niente. Prima gli affari, poi viene il resto: questa è la prima regola del signor Rupert Murdoch sbarcato in Italia per accumulare e ammassare denaro. E l’opposizione italiana esulta. L’obiettivo è delegittimare il premier. E, naturalmente, tutti i mezzi sono leciti.
Alberto Giannino
alberto.giannino@gmail.com
Lord Black conta tra le sue pubblicazioni il Daily ed il Sunday Telegraph in Gran Bretagna, il Chicago Sun Times oltre Atlantico, ed il Jerusalem Post in Israele. Forbes stima nel 2008 il suo patrimonio in 8,3 miliardi di USD, questo fa di lui il 109esimo uomo più ricco del mondo. Dopo aver iniziato con giornali, magazines e stazioni televisive nella sua Australia, le produzioni di Murdoch si espansero prevalentemente nel Regno Unito e negli Stati Uniti, per poi approdare in quasi tutti gli angoli del pianeta (il suo gruppo editoriale raggiunge ogni giorno circa 4,7 miliardi di persone, i 3/4 della popolazione globale). Negli ultimi anni, Murdoch è diventato uno dei più importanti imprenditori del mondo nel digitale satellitare, nel campo cinematografico e in molte altre forme di media. L’attacco sarebbe in relazione a Sky. Il Governo italiano infatti ha aumentato per questa TV l’Iva del 20% e Murdoch è nervoso sia per la questione dell’iva che è stata raddoppiata che per gli iscritti a Sky Italia che sono quasi 5 milioni: lui ne voleva almeno sette nel 2009. Ma i dati ufficiali sono questi e gli affari non vanno come desidera il signor Murdoch, mentre la pay tv del Cavaliere, Mediaset premium, va bene. Anzi benissimo. E ha raggiunto 3 milioni di tessere. Uno scontro tra imprenditori miliardari ci sarebbe, dunque dietro, l’attacco di The Times. Non solo: Murdoch deve rinnovare il contratto con Sky Italia e Rai Sat che ha cinque canali: da Viale Mazzini chiedono almeno un miliardo e mezzo di euro per 7 anni. Il magnate australiano offre solo 350 mila euro (per sette anni) per il bouquet RaiSat che comprende (Extra, Prem1um, Cinema, Smash Girls, YoYo). E Murdoch dopo questo scenario a lui non favorevole sarebbe passato al contrattacco. Un editoriale che definisce Berlusconi “anziano libertino”, che “frequenta donne più giovani di lui di con una differenza d’età di 50 anni”, e da ultimo definito un clown senza più maschera. «L’aspetto più di cattivo gusto del comportamento di Silvio Berlusconi – scrive The Times - non è che egli sia un clown sciovinista, né che rincorra donne che hanno 50 anni meno di lui, approfittando della sua posizione per offrire loro lavoro come modelle, assistenti personali o persino, assurdamente, candidate per l’Europarlamento. Quello che è più scioccante è l’assoluto disprezzo con cui si rivolge all’opinione pubblica italiana». Che infatti si sente così maltrattata dal Cavaliere da avergli fatto vincere le ultime elezioni. «Il libertino attempato - prosegue - può trovare divertente, o anche coraggioso, comportarsi da playboy vantando le sue conquiste, umiliando sua moglie, o facendo commenti che molte donne giudicherebbero grottescamente inappropriati. Egli non è l’unico o il solo il cui indegno comportamento è inappropriato al ruolo. Ma quando vengono poste legittime domande su relazioni che sfiorano lo scandalo e i giornali lo sfidano a dare spiegazioni che, al meglio, sembrano sconcertanti - è la sentenza del quotidiano di Murdoch - la maschera del clown cade. Egli minaccia i giornali e le emittenti televisive che controlla, invoca la legge per proteggere la sua privacy, diffonde comunicati evasivi e contraddittori e infine promette in modo melodrammatico di dimettersi se colto a mentire». E ancora l’editoriale conclude con un pesante attacco alla leadership del premier che presiederà il G8 a luglio a l’Aquila: «L’Italia – scrive il quotidiano - ospita il summit del G8 quest’anno: nel vertice si terranno importanti discussioni, dove ai governi occidentali si richiede una più solida collaborazione per combattere il terrorismo e il crimine internazionale. Berlusconi si ritiene un amico di Vladimir Putin. Il suo Paese è un membro importante della Nato. Ed è anche parte dell’eurozona che è alla prova nell’attuale crisi globale finanziaria. Non sono solo gli elettori italiani a chiedersi che cosa stia accadendo, lo fanno anche stupefatti gli alleati dell’Italia». Come ho scritto l’altro giorno su IMGPress non intendo fare il difensore d’ufficio di Silvio Berlusconi, però questo attacco vile, miserabile, e violento non è rivolto a costruire un’Italia diversa, più giusta e moderna come vuol far credere The Times, non è disinteressato, non vuol far emergere una questione morale in Italia, ma nasce da pretese di un magnate australiano, cinico e spietato, di avere corsie preferenziali per Sky Italia e il cui obiettivo è unicamente fare business in casa nostra. Poi, se stritola un Presidente del Consiglio in carica e lo fa a pezzettini, se lo mette alla berlina, se lo ridicolizza di fronte al mondo intero, non gliene frega niente. Prima gli affari, poi viene il resto: questa è la prima regola del signor Rupert Murdoch sbarcato in Italia per accumulare e ammassare denaro. E l’opposizione italiana esulta. L’obiettivo è delegittimare il premier. E, naturalmente, tutti i mezzi sono leciti.
Alberto Giannino
alberto.giannino@gmail.com
martedì 2 giugno 2009
Atene come Kabul : la città in ostaggio degli estremisti islamici
Atene è in balia dell’estremismo musulmano, ma potrebbe diventare come Kabul, con giovani islamici pronti a farsi saltare per aria in reazione alla presunta dissacrazione del Corano da parte di un poliziotto greco. Non si capisce bene se sia un avvertimento o una minaccia, ma Naim al Ghandour, presidente dell’Unione musulmana greca, ha ipotizzato scenari di terrore. «Come possiamo controllare degli arrabbiati ventenni afghani, che scendono in piazza cercando di morire in nome di Allah?», ha sentenziato il rappresentante della comunità islamica locale.
Alla vigilia delle elezioni europee la situazione è degenerata con violenze in nome dell’islam e rappresaglie contro gli immigrati musulmani. La scintilla che ha fatto divampare le proteste è la denunciata dissacrazione dei versi del Corano, il libro sacro dei musulmani, da parte di un agente di polizia. Tutto ha avuto inizio durante un controllo in un caffè gestito da siriani ad Atene. Uno degli avventori, Mohammad Ateeq, di origini irachene, aveva una copia del Corano o una riproduzione dei suoi versi. Un agente di polizia, non ancora identificato, avrebbe strappato alcune pagine e gettato a terra i versi sacri dell’Islam. Infine ci sarebbe salito sopra con i piedi in segno di disprezzo. «Quest’atto ha creato odio in un paese che non aveva la reputazione di essere “nemico” nel mondo arabo e musulmano», si è messo subito a denunciare al Ghandour.
Venerdì 22 maggio, giorno di preghiera e di lotta per i musulmani, circa 1.500 islamici sono scesi in piazza ad Atene armati di pietre e bastoni. I facinorosi puntavano al Parlamento e protestavano per la dissacrazione del Corano. Dal corteo si alzava il grido di guerra dei mujaheddin “Allah o akbar” (Dio è grande). Alcuni striscioni intimavano: «Giù le mani dagli immigrati». Solo ad Atene e dintorni si calcola che ci siano 400mila islamici legali o clandestini. Gli scontri del venerdì di passione sono iniziati con un assalto al cordone di poliziotti che difendeva il Parlamento. Gli agenti hanno risposto con candelotti lacrimogeni e granate assordanti. Respinto l’assalto, i mujaheddin d’importazione si sono scatenati distruggendo negozi, banche e ribaltando vetture in mezzo alla strada. I turisti fuggivano terrorizzati cercando rifugio negli alberghi. La guerriglia urbana in nome di Allah ha provocato l’arresto di 46 manifestanti. Sette islamici sono rimasti feriti ed altrettanti agenti hanno subito lesioni durante gli scontri.
I soliti “cattivi maestri” hanno preso formalmente la distanze dalle violenze dei mujaheddin di Atene. Poi, però, sono partiti gli avvertimenti sempre più simili a minacce.
I musulmani di Atene pregano in 120 luoghi di culto non riconosciuti. La richiesta di una moschea avanza a rilento, in uno dei paesi simbolo dei cristiani ortodossi. L’ancestrale avversità nei confronti della Turchia islamica non aiuta. Il vero problema, però, è la dilagante ondata di clandestini musulmani che arrivano non solo dal Nord Africa, ma pure dall’Irak, dal Pakistan e dall’Afghanistan. In Grecia vivono un milioni di immigrati, centomila dei quali sono clandestini secondo il ministero degli Interni. In città come Patrasso i giovani afghani in fuga dal loro paese sopravvivono in bidonville. In attesa di riuscire a nascondersi sotto i camion che si imbarcano sui traghetti diretti in Italia. Chi non ha nulla da perdere e proviene da una società fondamentalista non ci pensa due volte a scatenare la sua rabbia in piazza. Soprattutto se aizzato ad arte. Per questo Al Ghandour ha ventilato l’ipotesi dei giovani afghani pronti a morire nelle strade delle città greche in nome di Allah. Benzina sul fuoco viene lanciata dalle rappresaglie di cellule di estrema destra contro immigrati e islamici. Due settimane fa una delle pseudomoschee di Atene è stata incendiata e cinque immigrati del Bangladesh, che dormivano all’interno, sono rimasti feriti.
I mujaheddin di Atene vogliono continuare le proteste ogni venerdì. Durante l’ultima manifestazione, il 29 maggio, appariva sempre più evidente l’infiltrazione di gruppi legati all’estrema sinistra. Sotto la copertura di associazioni antirazziste e pro immigrati tentano di cavalcare la protesta islamica per scagliarsi contro il governo greco di centrodestra in vista delle elezioni europee.
di Fausto Biloslavo
http://www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=355659&START=0&2col=
Alla vigilia delle elezioni europee la situazione è degenerata con violenze in nome dell’islam e rappresaglie contro gli immigrati musulmani. La scintilla che ha fatto divampare le proteste è la denunciata dissacrazione dei versi del Corano, il libro sacro dei musulmani, da parte di un agente di polizia. Tutto ha avuto inizio durante un controllo in un caffè gestito da siriani ad Atene. Uno degli avventori, Mohammad Ateeq, di origini irachene, aveva una copia del Corano o una riproduzione dei suoi versi. Un agente di polizia, non ancora identificato, avrebbe strappato alcune pagine e gettato a terra i versi sacri dell’Islam. Infine ci sarebbe salito sopra con i piedi in segno di disprezzo. «Quest’atto ha creato odio in un paese che non aveva la reputazione di essere “nemico” nel mondo arabo e musulmano», si è messo subito a denunciare al Ghandour.
Venerdì 22 maggio, giorno di preghiera e di lotta per i musulmani, circa 1.500 islamici sono scesi in piazza ad Atene armati di pietre e bastoni. I facinorosi puntavano al Parlamento e protestavano per la dissacrazione del Corano. Dal corteo si alzava il grido di guerra dei mujaheddin “Allah o akbar” (Dio è grande). Alcuni striscioni intimavano: «Giù le mani dagli immigrati». Solo ad Atene e dintorni si calcola che ci siano 400mila islamici legali o clandestini. Gli scontri del venerdì di passione sono iniziati con un assalto al cordone di poliziotti che difendeva il Parlamento. Gli agenti hanno risposto con candelotti lacrimogeni e granate assordanti. Respinto l’assalto, i mujaheddin d’importazione si sono scatenati distruggendo negozi, banche e ribaltando vetture in mezzo alla strada. I turisti fuggivano terrorizzati cercando rifugio negli alberghi. La guerriglia urbana in nome di Allah ha provocato l’arresto di 46 manifestanti. Sette islamici sono rimasti feriti ed altrettanti agenti hanno subito lesioni durante gli scontri.
I soliti “cattivi maestri” hanno preso formalmente la distanze dalle violenze dei mujaheddin di Atene. Poi, però, sono partiti gli avvertimenti sempre più simili a minacce.
I musulmani di Atene pregano in 120 luoghi di culto non riconosciuti. La richiesta di una moschea avanza a rilento, in uno dei paesi simbolo dei cristiani ortodossi. L’ancestrale avversità nei confronti della Turchia islamica non aiuta. Il vero problema, però, è la dilagante ondata di clandestini musulmani che arrivano non solo dal Nord Africa, ma pure dall’Irak, dal Pakistan e dall’Afghanistan. In Grecia vivono un milioni di immigrati, centomila dei quali sono clandestini secondo il ministero degli Interni. In città come Patrasso i giovani afghani in fuga dal loro paese sopravvivono in bidonville. In attesa di riuscire a nascondersi sotto i camion che si imbarcano sui traghetti diretti in Italia. Chi non ha nulla da perdere e proviene da una società fondamentalista non ci pensa due volte a scatenare la sua rabbia in piazza. Soprattutto se aizzato ad arte. Per questo Al Ghandour ha ventilato l’ipotesi dei giovani afghani pronti a morire nelle strade delle città greche in nome di Allah. Benzina sul fuoco viene lanciata dalle rappresaglie di cellule di estrema destra contro immigrati e islamici. Due settimane fa una delle pseudomoschee di Atene è stata incendiata e cinque immigrati del Bangladesh, che dormivano all’interno, sono rimasti feriti.
I mujaheddin di Atene vogliono continuare le proteste ogni venerdì. Durante l’ultima manifestazione, il 29 maggio, appariva sempre più evidente l’infiltrazione di gruppi legati all’estrema sinistra. Sotto la copertura di associazioni antirazziste e pro immigrati tentano di cavalcare la protesta islamica per scagliarsi contro il governo greco di centrodestra in vista delle elezioni europee.
di Fausto Biloslavo
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